Gere barbone, Del Toro narcos. Dannati ma sempre fascinosi

Il primo fa il senzatetto nel drammatico "Time out of mind", il secondo presta il volto al super fuorilegge Pablo Escobar

Benicio Del Toro in una scena di "Escobar: Paradise Lost"
Benicio Del Toro in una scena di "Escobar: Paradise Lost"

Due uomini soli al comando del red carpet. E delle loro vite maledette. Al quarto giorno d'un festival partito in salita, Richard Gere e Benicio Del Toro prendono il timone della kermesse e si fanno guardare, come divi e come uomini. Certo, è dura vedere l'«American Gigolò», oggi 65enne, trasformato in barbone dalla barba irsuta, che s'aggira per New York come un senzatetto, nel film drammatico di Oren Moverman, Time Out of Mind. Né turba di meno la corpulenta star latinoamericana Benicio Del Toro, in passerella come uno dei gangster più famosi al mondo, il narcotrafficante Pablo Escobar, incarnato nel biopic Escobar: Paradise Lost del debuttante Andrea Di Stefano.

Ma tant'è: ci vogliono emozioni forti, se il mondo scivola verso l'atarassia sociale. Così, ecco l'«Ufficiale e gentiluomo» che dorme nella vasca da bagno d'un porcile urbano, un appartamento disabitato dove lui aspetta Sheila. Ma Sheila è andata via: un cancro al seno, spiega il barbone, che indossa un cappottino blu da «has been», un ex benestante precipitato in basso. Da subito è chiaro che questo clochard con le unghie curate e devoto alla birra, ha una storia. Ma quale? Sarà vagabondaggio, tra la stazione Grand Central e i centri d'accoglienza per gli homeless, dove l'America puritana con una mano dà e con una toglie. Tra dormite al Pronto Soccorso di Manhattan, con i barboni cacciati via in assenza del «Codice Blu» (temperature sotto lo zero) e tentativi di riavvicinamento alla figlia barista, c'è poco da fare: il massimo è una sveltina con un'altra balorda che raccoglie lattine (Kyra Segdwick). La morale? Dàgli e dàgli, la povera figlia assisterà l'immiserito padre senza documenti e senza niente. Anche se lui, da piccola, l'aveva trascurata.

«Ho affrontato il rischio della sceneggiatura, che conoscevo da un decennio. Ispirata al libro Land of Lost Souls d'un clochard noto come Cadillac Man, narra la storia d'una discesa agli Inferi», spiega Gere, che in 40 anni di carriera, per la prima volta si mostra in versione laida: mentre rovistava nella spazzatura per esigenze di copione, una donna gli ha offerto una pizza, credendolo bisognoso. «Abbiamo girato in 21 giorni, per strada. Ho imparato che i senzatetto sono invisibili: lui o lei, sono comunque un buco nero. E la gente non vuole essere risucchiata nel buco nero del fallimento», spiega l'attore, in versione minimalista: pochi dialoghi e camera fissa sulle sue rughe. «Vedendomi malridotto, una turista francese voleva sfamarmi e un paio di afroamericani, riconoscendomi, m'hanno detto: “Hey, Rich, che ti è successo?”. Perlopiù, nessuno si accorgeva di me: il mio ruolo nasce dalla non reazione della gente», dice Richard, che qui chiede l'elemosina con un bicchiere di carta.

Ugualmente struggente, Benicio Del Toro, premio Oscar nativo di Porto Rico, s'è fiondato nella parte di Pablo Escobar, il più grande distributore di cocaina del Sudamerica, ucciso nel 1993 in un conflitto a fuoco con le forze dell'ordine colombiane, degno di Scarface. «Chi lo considera santo, chi un diavolo. È chiaro che Escobar fu un Robin Hood dei poveri, un uomo d'affari con una vena di filantropia: ha costruito campi di calcio e ospedali per i poveri», dice Benicio, che a novembre vedremo come avvocato nel film di Thomas Anderson Inherent Vice. Su Escobar, figura romantica di villain criminale, si sono esercitati in molti: da Oliver Stone a Joe Canahan, fino al nostro Andrea Di Stefano, che sceglie una visuale atipica. E fa raccontare la figura di Pablo da una coppia di giovani amanti: l'eroe di Hunger Games, Josh Hutchinson e Claudia Treisac, qui come nipote dell'efferato criminale.

Avvezzo alle figure storiche, come il Che di Steven Soderbergh, Del Toro, reduce dal successo di Guardiani della Galassia, regala

la sua intensa fisicità a un film riuscito. «La sensibilità di Di Stefano m'ha convinto: c'è un tocco di brutalità e uno di poesia. La verità ha sempre due facce». Se sono belle come quelle di Richard e Benicio, ben venga.

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