In Giappone "Il mestiere dello scrittore" è quasi più deprimente che in Italia

Murakami Haruki racconta l'intellighenzia (al tramonto) del Sol Levante

In Giappone "Il mestiere dello scrittore" è quasi più deprimente che in Italia

Uno pensa che peggio dell'Italia non ci sia niente, almeno culturalmente parlando: basta vedere le combriccole dei critici o i tristi giurati del Premio Strega, o il bassissimo livello dei dibattiti tra intellettuali, o la mancanza di coraggio dei grandi editori impegnati a puntare sul solito prodotto medio, mainstream o midcult che sia. Invece tutto mondo è paese, perfino il Giappone. Infatti a leggere Il mestiere dello scrittore (Einaudi), ultimo libro di Murakami Haruki (l'autore di romanzi fluviali come 1Q84), ci si rende conto che l'intellighenzia nipponica è simile a quella italiana.

Al posto del Premio Strega c'è, per esempio, il premio Akutagawa, contro il quale Murakami si scaglia senza pietà per numerose pagine, la parte più interessante del saggio. A rischio di farsi dire che «rosica», perché non l'ha mai vinto, come succederebbe da noi. «Due volte candidato, due volte eliminato. A quel punto molti editori hanno detto: Signor Murakami, questa è la fine. D'ora in poi non avrà altre occasioni di essere candidato al premio Akutagawa». Addirittura ci hanno scritto su un libro, dal titolo Perché Murakami Haruki non ha vinto il premio Akutagawa, ma non sappiamo cosa ci sia scritto perché perfino Murakami non l'ha letto. Inoltre il premio Agutagawa è controllato dal più grande editore giapponese, «qualcosa che l'editore fa per guadagnare», vi ricorda qualcosa? E d'altra parte Murakami osserva come non vi siano più criteri qualitativi in nessun premio, incluso il Nobel: «Si può denigrare o lodare tutto ciò che si vuole».

Quanto ai critici, tutti quelli (pochi) che lo elogiano oggi lo hanno stroncato o ignorato ieri, e la maggior parte continua a farlo. «Siamo arrivati al punto che se saltassi in un lago per salvare una vecchietta in procinto di annegare, probabilmente verrei criticato. L'ha fatto solo per farsi pubblicità, si direbbe, oppure: Di sicuro la vecchietta sapeva nuotare». Come da noi, anche in Giappone il dilettantismo impera, tanto quello edito quanto quello inedito, e mentre a nessuno viene in mente di scrivere un trattato di astrofisica senza avere idea della meccanica quantistica, o di improvvisarsi neurochirurgo senza aver studiato medicina, a chiunque viene voglia di scrivere un romanzo senza averne neppure letto uno. Segno che, sentenzia Murakami, forse «scrivere romanzi non è un'attività consona a un intelletto superiore».

Insomma, ci sono solo due differenze, a ben vedere, con la situazione italiana. La prima è che Murakami capisce di voler essere uno scrittore quando, da giovane, si ritrova tra le mani un piccione ferito, e lo porta da un veterinario. Solo un giapponese può avere un'agnizione simile, da noi al massimo può succedere a Mauro Corona.

La seconda è che in Giappone l'amicizia tra gli scrittori non esiste, perché «gli scrittori sono fondamentalmente delle persone egoiste, troppo orgogliose e con un forte spirito di rivalità». Invece da noi i tromboni sono tutti amici. Della domenica.

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