Gino Paoli cambia tutto "Il mio disco di musica essenziale"

La sfida di «Appunti di un lungo viaggio»: «Provo a togliere dai brani le parti inutili»

Gino Paoli cambia tutto "Il mio disco di musica essenziale"

Alla faccia dei suoi quasi 85 anni e dei milioni di sigarette, Gino Paoli se ne è inventata un'altra. Entra dritto nella sala della Warner Music e la riassume così: «Quando hai detto tutto, la canzone deve finire». E non è un annuncio un tanto al chilo, lo ha proprio fatto. Gino Paoli festeggia sessant'anni di carriera - dicesi 60! - con un doppio cd che si intitola Appunti di un lungo viaggio ed è l'identikit di una storia favolosa, la sua. In un disco ci sono i suoi super classici come Sapore di sale o Una lunga storia d'amore o Il cielo in una stanza risuonati con i migliori jazzisti italiani (Rita Marcotulli, Alfredo Golino e Ares Tavolazzi). L'altro disco si intitola Canzoni interrotte e sono interrotte per davvero: «Ho pensato di poter modificare la forma canzone, eliminando, se necessario, l'inciso o la strofa o il ritornello». In sostanza, ha buttato nel cestino le convenzioni e ha scelto lo stile libero registrando quattro «canzoni» intitolate (alla Vivaldi) Estate, Inverno, Primavera, Autunno nelle quali si alternano testi essenziali e movimenti strumentali del sempre più gigantesco Danilo Rea. «Quando eravamo giovani, con Arnaldo Bagnasco avevamo inventato l'essenzialismo che si riassume così: quando puoi dirlo in tre parole, non usarne 50. Certo questo però comporta che, prima di parlare, devi pensare, anche se oggi molti fanno il contrario».

Nel Gino Paoli essenzialista ci sono brani come Amico mio, dedicato ai ricoverati in un «manicomio» di Trieste perché dentro i matti c'è spesso una limpidezza che altrove non si trova. Oppure Due cani in chiesa, che è un omaggio al suo amico Don Gallo che «era contro tutto e con tutto» e che «quando aveva i polmoni cotti, l'ho accompagnato a morire in ospedale». Quando parla, quest'uomo irsuto, intelligente e in fondo dolcissimo intercetta spesso l'idea della morte. Da vero bastian contrario, come lo definiva sua mamma, lo fa per negarla: «Io non credo nella morte, in natura non esiste. Esiste una stagione che finisce e una che inizia. A me questo dà serenità. È la morte degli altri che invece mi dà dolore. Certe volte, senza pensarci, faccio il numero di telefono di amici che non ci sono più e da anni faccio canzoni per ricordare amici come Tenco, Bindi, De Andrè e Lauzi, che era il più diverso da me - e difatti litigavamo sempre - ma è quello che mi manca di più. Perciò qui canto la sua Ritornerai». Ma non c'è nulla di malinconico o piagnucoloso in quello che oggi è il vero maestro della canzone d'autore, anzi. «Il bilancio della mia vita? Non ci penso neanche. Al limite lo farà chi mi mette nella cassa», dice ridendo.

E poi, riferendosi a un suo verso, dice che «voglio morire malato, rido quando sento che quel tale è morto malato ma non aveva mai fumato...».

C'è un'anima punk in questo vecchio saggio che alla fine della guerra mondiale con i soldati americani scambiava i suoi pomodori per avere dischi jazz: «La saggezza dipende dal numero di domande che ti fai, a prescindere dalle risposte. La ribellione è la tua vocazione, ce l'hai oppure no. Si nasce ribelli oppure pragmatici». E lei? «Sono ancora un ribelle». Difatti poco dopo, parlando dei nuovi cantanti, scherza: «Pippo Baudo mi ha chiesto qual è un bravo cantante nuovo e io gli ho risposto: Lucio Dalla. A parte le battute, l'ultima che ho visto è Elisa. Ma in giro c'è poca gente che supera i condizionamenti discografici. Oggi si va per imitazione. Magari ci sono tanti talenti, ma non passano il filtro». Per farlo, bisogna «avere le palle», come si dice. E mettersi in gioco, non soltanto artisticamente. «Ogni artista dovrebbe schierarsi, se oggi non lo fa più quasi nessuno è perché sono tutti delusi. E la delusione ti porta al disinteresse. È vero, ci sono brani come Imagine di John Lennon - che è l'unico che vorrei aver scritto - che hanno cambiato la situazione, oggi nessuno risponde al dovere di denunciare». E gli brillano gli occhi, si illuminano dell'azzurro infuocato del mare in tempesta.

E adesso, in attesa di festeggiare un viaggio lungo 60 anni con tre concerti (12 maggio Parco della Musica a Roma, 13 luglio Umbria Jazz e 18 luglio a Genova) si

conferma l'anarchico che è sempre stato: «Si avvicina la fine e mi avvicino alla fede? No, il mio motto è quello degli anarchici: né dio né padroni». E lo dice in francese, come si conviene al più grande dei nostri chansonnier.

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