Perché sono cristiano: perché ho sete di un Dio che non sia né tenebra pura né me stesso di un essere che, pur assomigliandomi fino al centro, sia anche tutto ciò che mi manca. Perché in questo mondo, voglio benedire tutto e non divinizzare nulla. Perché voglio mantenere simultaneamente lo sguardo limpido e il cuore ardente. Perché sento che l'avventura umana sfocia su una cosa diversa da una vuota disperazione, un vuoto interrogarsi o una vuota spensieratezza. Per conciliare il mio immenso amore e il mio immenso disgusto dell'uomo. Perché ho bisogno di luce nel mistero e di mistero nella luce. Perché voglio avere la forza di costruire e di vivere, e quella, ancora più grande, di sperare nell'ora del crollo e della morte. Perché sono, nello stesso tempo e indissolubilmente, realista ed eccessivo. Perché voglio abbeverarmi di eccesso, senza rinnegare l'ordine e ritrovare l'ordine nell'eccesso. Perché il cristianesimo solo ci apre una regione superiore dove tutto ciò che, sulla terra, è considerato a giusto titolo scandaloso, insensato e distruttivo (la speranza cieca, l'amore sfrenato, la fiducia nella fecondità del male unita al rifiuto assoluto del male) diventa saggezza e verità; perché riversa in noi un sangue nuovo e così puro che la sua temperatura può salire infinitamente senza che ci sia febbre.
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Non dimenticare mai che l'uomo è uscito dal nulla e non dimenticare anche che è Dio che l'ha tirato fuori da là. La prima di queste verità ti salverà dall'utopia, la seconda dalla disperazione.
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Distaccati anche dal tuo dolore. Non consentirvi mai con tutta la tua anima. Ama ciò che causa la tua felicità, non amare la tua felicità; ama ciò che ti fa soffrire, ma non amare la tua sofferenza. Non esaurire in te la fragile e leale fonte dell'equilibrio. Nel cuore della tua gioia, non essere ingrato per le lacrime; nell'ora della sofferenza, eleva verso la felicità la tua preghiera e il tuo sforzo. Disciplina il tuo dolore; non rifiutare al fiele le tue labbra, ma il gusto del fiele, non trattenerlo sul tuo labbro. Allontana da te quel compiacimento amaro e dispiaciuto per il naufragio. Nel desiderio del naufragio può dormire altrettanta avarizia quanta nel pusillanime attaccamento alla pace del porto, e più orgoglio. Non curvarti con tutto il tuo peso sulle tombe, non ispezionare, non blandire la tua tristezza. Per essere perfettamente puro, è necessario che il tuo dolore sia perfettamente involontario.
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Vivere o pensare? A vedere la sterilità dei giochi dello spirito, si è tentati di darsi interamente all'azione che porta in sé la sua propria giustificazione e il cui peso di realtà fissa l'ago della bilancia interiore. Ma questo rifugio è ancora un'illusione, infatti non c'è vita senza ragione di vivere né azione esente di senso e di scopo. I nostri atti, qualsiasi essi siano, sono costretti a inserirsi in una rete di costumi e di ideali intessuta dallo spirito. Di modo che chi si rifiuta di vivere secondo il suo proprio pensiero si condanna nello stesso tempo a vivere secondo il pensiero altrui. Non sfugge allo spirito e, facendo a meno di correre il rischio dello spirito creatore, cade nel solco dello spirito conformista.
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Si soffre sempre da soli e doppiamente da soli quando ci si lamenta, giacché si aggiunge alla propria sofferenza la vergogna di non essere stati né veramente accolti né veramente consolati, cioè di essere stati vili invano.
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Il paradiso non si compra. È un dono gratuito di Dio all'uomo che corrisponde a un dono gratuito dell'uomo a Dio. Troppi cristiani preparano la loro eternità con lo stesso stato d'animo e con gli stessi mezzi di un uomo previdente che si assicura, con un'accorta economia, il pane della sua vecchiaia. Si privano di certe cose per ritrovarle più tardi, sotto altra forma, ma sempre allo stesso livello: ciò che offrono a Dio non è un dono ma un prestito rimborsabile in beatitudine. Ignorano che la moneta del tempo non ha corso nell'eternità, che Dio accetta solamente ciò che gli si dà a fondo perduto e che il fondo che bisogna perdere senza calcolo e senza ritorno siamo noi stessi.
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Sacrifici umani. Evochiamo rabbrividendo i roghi dove i Cartaginesi o gli Aztechi gettavano vittime vive per placare il furore degli dèi. Facciamo meglio noi oggigiorno? Che si tratti di idoli, come Uitzilopochtli o Moloch, o di personaggi storici elevati al rango di idoli, come Maometto o Bonaparte, o delle semplici idee come la democrazia, il razzismo o il marxismo, bocche invisibili hanno sempre succhiato il sangue degli uomini, lo spirito non ha mai cessato di essere il parassita della vita. E non è anche il riflesso tragico e contorto della trascendenza dell'uomo rispetto al mondo sensibile, questo bisogno incrollabile di sacrificare il noto per l'ignoto, il presente all'avvenire e la vita nel tempo, ormai così effimera e così miserabile, alle entità misteriose che regnano dall'altro lato della morte? Rincarare la dose sulla nostra propria sventura, allargare gratuitamente l'immensa piaga dell'esistenza, gettare agli dèi avari questo sconto sanguinante sui loro magri doni che follia agli occhi della prudenza carnale! I sacrifici umani nascono dall'accoppiamento mostruoso tra l'istinto che spinge il bruto verso la sua preda e il senso del mistero che prostra l'uomo davanti a Dio.
Ma si avvicina probabilmente l'ora in cui l'uomo, ridotto alla piattezza di un'esistenza perfettamente razionalizzata, allontanerà da sé tutte le follie e tutti i rischi che dipendono dal suo spessore animale e dalla sua profondità divina. Aspettando quell'età dell'oro in cui non sarà altro che il contabile meticoloso della sua piccola felicità temporale, gli resta ancora qualche idolo, e sa soffrire e morire per esso. Ma questi idoli non sono altro che gli scheletri dei vecchi dèi: etichette vuote di senso (ideologie politiche), oppure dei numeri senza contenuto (gusto della velocità e del record): l'idolatria scivola completamente dall'essere verso l'avere, o piuttosto (infatti l'avere puro non è che una cornice vuota) dalla realtà verso il nulla. Morte, dov'è la tua vittoria? Si può concepire una parodia meccanica della vittoria cristiana sulla morte: consiste nel rendere la vita talmente simile alla morte che quest'ultima non trova più nulla da uccidere in noi; una macchina non muore, in effetti è già morta di una morte senza mistero né resurrezione.
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Cosa si cerca nell'amore? Un'abitudine che resti una novità, una bevanda che plachi la sete in quanto vuoto e sofferenza e che la dilati in quanto capacità e desiderio in una parola l'inesauribile nel mondo del limite, l'impossibile. Infatti chiedere l'infinito a una creatura, significa desiderare contraddittoriamente lo stretto calore del rifugio e la libertà dello spazio, significa mettere l'amore in gabbia e volere che voli all'aria aperta, significa dimenticare che non c'è un'alternativa per l'uccello prigioniero: lasciare le sue ali atrofizzarsi nella servitù o, ribellandosi, spezzarle contro le sbarre.
Solo il ricordo (penso ancora a Proust) permette di conciliare l'attaccamento al limite e il richiamo
dell'infinito. Giacché l'assenza materiale della creatura amata fa sì che l'amore che proviamo per lei non sia più un ostacolo allo slancio divino e ciò che fu una gabbia diventa un punto di partenza verso tutti gli aldilà.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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