Roma - Se lo dice lui, con le lenti azzurre a proteggergli gli occhi azzurri, qualcosina vorrà pur dire: «I rapper non fanno canzone d'autore. Io sono un musicista e la musica è fatta di armonia e melodia. Nel rap non ne sento». Punto e a capo. Gino Paoli ha 79 anni e il destino coriaceo di chi rimane controcorrente anche se conosce bene come tira il vento e sa come addomesticare la bussola. Potrebbe godersi, come direbbe un manager, il know how facendo fruttare i gloriosi cinquant'anni e rotti di carriera che si ritrova alle spalle e, dopotutto, anche sul conto corrente. Invece no. Fa concerti e dischi a ripetizione manco fosse un trentenne. E non c'è neppure molta differenza tra gli uni e gli altri nel senso che è sempre «buona la prima», ossia conta l'emozione, l'esecuzione spontanea, niente compromessi tecnologici. Così è anche questo cd Napoli con amore che ha inciso con l'elegantissimo Danilo Rea al pianoforte dedicandolo ai brani enormi di Salvatore Di Giacomo o Libero Bovio e Roberto Murolo, quei capolavori come Era de maggio o Dicitencello vuje o Reginella, che sono poesie popolari prestate alla musica. Qui c'è l'atmosfera sorniona del jazz, sempre che consideriate che cos'è il jazz per Gino Paoli, cioè «affrontare la musica secondo se stessi: Glenn Gould, che è stato il più grande pianista del Novecento, ha suonato Bach e Beethoven a modo suo e quindi per me è jazz».
Capite il tipino? È amico di Beppe Grillo e quindi si trattiene dal commentare le sue ultime scelte politiche. Ma era anche un idolo di Indro Montanelli, «che stimavo perché era competente e di buon senso, le due doti più importanti. Una volta sono andato al suo compleanno, c'erano tutti, da Agnelli in giù, e lui quando mi ha visto ha detto: Ah, finalmente il poeta. Anzi, posso dire? Il giorno dopo l'11 settembre ho inconsciamente cercato in edicola il commento di Indro: ne avevo bisogno e manco avevo metabolizzato che fosse morto due mesi prima». Quando parla, Gino Paoli aspira boccate di fumo che saettano roteanti per le sue labbra. È un'iradiddio anche se si muove piano, molto mansueto: bastano le parole. E la forza delle idee (o delle contraddizioni). «C'era la canzone napoletana, piena di poesia. Poi è arrivata la canzone ipnotica o ballabile, comunque ludica. E infine siamo arrivati noi, i cantautori genovesi, che avevamo la stessa dolce anarchia degli autori napoletani di inizio Novecento. Fabrizio De André, io, Bruno Lauzi e anche Luigi eravamo così, liberi, anche se Tenco aveva questa benedetta, o maledetta, cazzimma del successo che poi è finita come è finita».
Adesso che affronta la canzone napoletana alla maniera di Sergio Bruni e non dei tenori novecenteschi pieni di polmoni, Gino Paoli si conferma quello che è sempre stato: l'altro lato della realtà. «Anche quando si canta il dramma, sotto ci deve essere l'ironia. Se affrontassi la vita senza ironia, sarei già morto. E pensa come mi sento male in quest'epoca che è quella del prendersi troppo sul serio senza un briciolo di autocritica». Quando canta canzoni napoletane come 'O Paese d' 'o sole o Te vojo bene assaje, Gino Paoli ha un accento che pure quelli di Mergellina hanno approvato: «È stata la mia più grande soddisfazione». Dopotutto, anche se è lecito esserselo dimenticato, Gino Paoli ha pure scritto un brano in lingua napoletana intitolato Angela: «Ma non ho avuto il coraggio di firmarlo con il mio nome e quindi l'ho depositato come anonimo. Dopo qualche anno Roberto Murolo mi ha detto: Ehi Gino ti faccio ascoltare un brano napoletano di secoli fa che ho appena scoperto. Era Angela! E c'è rimasto un po' male quando ha saputo che in realtà era mio».
In fondo a Gino Paoli, quello del Sapore di sale, piace parlare poco all'occorrenza: «Mio padre mi diceva sempre: se non sai cosa dire, allora stai zitto. E perciò ho fatto fatica ad accettare che la canzone per i discografici sia un mezzo per avere invece che un mezzo per dare».
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