Alla metà degli anni Sessanta del secolo scorso, Giacomo Debenedetti (del quale quest'anno ricorrono i cinquant'anni dalla morte) scriveva un saggio destinato a restare celebre, Commemorazione provvisoria del personaggio-uomo (pubblicato su un fascicolo di Paragone), in opposizione a una corrente nata in Francia, capostipite Robbe-Grillet, nominata Nouveau Roman, la quale aveva messo in discussione un genere il romanzo minando proprio la sua ragione prìncipe, appunto il personaggio. Debenedetti, da parte sua, per contrapporsi a quello che considerava un pericolo, in cui percepiva che la letteratura aveva rischiosamente imboccato la stessa via della scienza (parla di una scomparsa del «personaggio-uomo» a favore di un «personaggio-particella»), usò tutte le sue armi teoriche e, prima ancora, tutto il suo acume e partecipazione, poiché sapeva che parlare di personaggio significava discutere di qualcosa che riguardava tutti: «si tratta anche di te». Era, occorre dirlo, una petizione di principio, perché è chiaro che da quella corrente non mancarono dei capolavori (basti solo pensare ai romanzi di Claude Simon). Ma non potremmo leggere la Commemorazione (che oggi Il Saggiatore ristampa come primo saggio della raccolta Il personaggio uomo introduzione di Raffaele Manica, pagg. 170, euro 17 , uscita postuma per la prima volta nel 1970), senza considerare che la ricerca di Debenedetti quasi un tarlo, un'ossessione era nata già molti anni prima. Testimonianza ne è un testo, confluito poi nei Saggi critici. Terza serie (1959), che «il primo critico italiano», come lo incoronò Contini, pubblicò in rivista nel 1947: Personaggi e destino. Lì Debenedetti già denunciava: «Un divorzio si è consumato tra il protagonista e ciò che gli succede. Si è rotto il rapporto di pertinenza, di legalità tra personaggio e vicenda. Come dire: tra l'uomo e il suo destino». Ma quello che, nella Commemorazione, è affrontato in forma anche polemica, qui è invece prima di tutto una scoperta, quella della fine dell'«epica della realtà», nata con la prima forma di romanzo (o narrazione) d'Occidente, l'Odissea, e protrattasi fino ai naturalisti dell'Ottocento, coloro che il critico chiama «osservatori» (Zola il teorico, Stendhal «il profeta»). Poi il personaggio, complice la psicanalisi (e gli orrori della Storia), si è rivoltato al suo autore, reclamando il diritto alla sua volontà di restare orfano di padre. Ecco allora la comparsa dei personaggi che bastano a se stessi. Quelli per tutta la vita analizzati da Debenedetti, di Proust, Joyce e Pirandello.
La questione del romanzo, insomma, è per Debenedetti tanto centrale da risultare vitale e da permetterci di affermare che fu egli stesso a costruire un romanzo non tanto della propria vita, ma dell'intera sua ricerca come dire la storia della sua mente, lasciandoci comprendere ogni suo movimento e contorcimento, ogni sua ossessione e pulsione.
Proprio in questo senso fa bene Raffaele Manica, nell'acuta introduzione a Il personaggio uomo, a leggere nelle pagine del critico quelle di uno dei migliori scrittori del nostro Novecento; più scrittore, alle volte, degli autori che andava leggendo e analizzando.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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