«Non è per fare l'interessante, che giro film tanto diversi. Sono curioso per natura», dice dal suo studio parigino il regista francese Patrice Leconte, raggiunto al telefono da Il Giornale . A 66 anni, l'autore de Il marito della parrucchiera , noto per la disinvoltura con cui passa dalle commedie popolari al cinema d'autore, firma il suo primo film in inglese, Una promessa (da ieri in sala), tratto dal romanzo Il viaggio nel passato (Ibis editore) dell'austriaco Stefan Zweig, autore romantico saccheggiato con successo anche dal recente Grand Budapest Hotel . Una promessa mette in scena l'industriale Karl Hoffmeister (l'impeccabile Alan Rickman), che prende a benvolere il giovane ingegnere d'origine proletaria Friedrich Zeitz (Richard Madden, in provenienza dal Trono di Spade ), al quale offre sempre maggiori opportunità, fino a installarlo nella propria ricca dimora. Dove Zeitz conosce la giovane moglie dell'industriale, Lotte (Rebecca Hall), innamorandosene perdutamente. Nessuno dei due, però, si dichiara, fino a che Friedrich verrà inviato in Messico, a dirigere una miniera: alla sua partenza, gli amanti platonici si promettono amore eterno, ma la Grande Guerra li separerà ancora...
Un film di sguardi, allusioni, amori non confessati, mentre tutti dichiarano tutto sul web, sovraesponendosi in modo anche volgare. A chi potrebbe parlare, oggi?
«Innanzitutto ai giovani, che, almeno in Francia, leggono Zweig con molto interesse. Poi alle donne, che amano le atmosfere sospese. Infine, a chiunque presti attenzione ai sentimenti amorosi: i silenzi e gli sguardi contano quanto le parole, in amore. Il cinema non è forse un'arte di immagini e suoni? Esprimersi attraverso cose non dette, possibilmente senza annoiare, per me è una sfida affascinante».
Il finale del film è ottimista, rispetto al libro...
«Il film non è tanto la storia d'un amore contrastato, quanto d'un amore impossibile, che non è la stessa cosa. Il giovane Friedrich non ha diritto d'innamorarsi di questa donna, per via della differenza di classe sociale. Se Zweig, che non a caso è morto suicida, nel romanzo opta per un finale triste e disincantato, io non ho avuto il coraggio di arrivare fin là,dove muoiono le speranze. Una speranza bisogna sempre lasciarla».
Ha cambiato anche altre cose: nel romanzo, gli amanti non si baciano, come nel suo film...
«Quando studiavo cinema, Jean-Claude Carrière raccomandava a noi studenti: Se adattate un libro per il grande schermo, leggetelo tre, quattro, cinque volte. E poi, dimenticatevelo sotto il letto». Io ho fatto così. Se 10 registi adattassero lo stesso libro, avremmo 10 film diversi, comunque».
Perché ha scelto proprio questo romanzo di Stefan Zweig?
«Ci ho trovato delle eco personali: adoro questi personaggi di un'altra epoca, dove tutto si àncora alla Germania del 1912. All'inizio, volevo girare in Germania, in lingua tedesca e con attori tedeschi, per essere fedele il più possibile al racconto. Però, non parlo tedesco e la produzione m'ha intimato di girare in inglese. La domanda centrale, nel romanzo come nel film, è: il desiderio amoroso resiste al tempo? Non c'è niente di più devastante del desiderio amoroso e Zweig ne parla in modo sublime».
Come ha fatto a parlare di desiderio amoroso, senza mai mostrare un centimetro di pelle dei due amanti?
«Mi sono concentrato sulle nuche. Trovo la nuca, soprattutto quella femminile, molto erotica. Insieme al punto-vita di Lotte, inquadrato obliquamente per evocare il desiderio di cingerlo. Per fortuna, ho lavorato con Pascaline Chavanne, costumista che ha vinto il César per Renoir . Nel 1912, le donne tedesche erano coperte dalla testa ai piedi: non si vedevano né spalle, né nuche. Qui, ci siamo presi delle libertà con pizzi e merletti. Quando Friedrich si china sotto il tavolo, per prendere pezzi di puzzle, avrei voluto che lei avesse le caviglie nude. Ma sarebbe stato un grave errore filologico».
Progetti futuri?
538em;">«Sto preparando un film comico, intitolato Un'ora di tranquillità ,con Carole Bouquet e Christian Clavier. Vanno tutti così di fretta: un'ora di pace tutta per sé è indispensabile, mentre la vita accelera!».
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