Cultura e Spettacoli

"Io e Albanese? L'abbiamo fatta grossa e la faremo di nuovo"

Il regista: "Con Antonio ho lavorato benissimo. Potremmo essere la nuova coppia del cinema"

"Io e Albanese? L'abbiamo fatta grossa e la faremo di nuovo"

Gattaro. Panzoncello. Irresistibile. E' Carlo Verdone, formato investigatore privato privo di mezzi, che passa le notti quiriti in cerca di mici dispersi, o scrivendo Le avventure di Peter York, il suo alter ego detective. Nel giallo comico L'abbiamo fatta grossa (da domani in sala), da lui diretto e interpretato, insieme ad Antonio Albanese, che nel ruolo d'un attore tradito dalla moglie gli dà la replica con uguale brio, Verdone, classe 1950, si reinventa con tagliente ironia. In mutande, travestito da prete o da indiano «vu cumprà», regala al suo pubblico un brillante personaggio inedito, tra avventure rocambolesche nella Roma dei quartieri borghesi, fotografata al meglio da Arnaldo Catinari; una vecchia zia poco lucida e un lieto fine realistico. Con tanto di pernacchia liberatoria all'indirizzo d'un politico corrotto.

Come mai un giallo?

«Volevo introdurre suspence all'interno della classica commedia all'italiana. E liberarmi, finalmente, dei temi sfruttati nei miei ultimi film: lo scarto generazionale, la solitudine tra uomo e donna, il lavoro, le relazioni sentimentali complesse. Ormai non mi ci vedevo più come marito con figli... Con Antonio a disposizione, ho cercato qualcosa di più fantasioso, quasi una favola. Che nel fondo, nel gesto provocatorio del finale, contiene un accento di critica sociale e di costume. Io devo sterzare: se nella mia carriera non avessi sterzato, non sarei qui a lavorare da 38 anni».

Com'è stato lavorare con un altro mattatore, qual è Albanese?

«Un'esperienza di amicizia, soprattutto. Nessuno ha mai tentato di scavalcare l'altro: se nel film avevo qualcosa in più io, facevo in modo che anche lui l'avesse. Forse è il miglior attore con cui abbia mai lavorato. E varie cose ci uniscono: la passione per la musica e per l'arte. Anche lui è un collezionista. Poi, a me piace il suo spirito lombardo e lui apprezza la mia romanità. C'è vero affetto tra noi e abbiamo la stessa ironia».

Il vostro duo comico potrebbe avere un seguito?

«Se il pubblico apprezzerà, abbiamo già una traccia di quanto faremo tra due anni. Sicuramente, il nostro sodalizio deve proseguire. C'è bisogno di unire le forze, di creare una coppia. Una volta, nel nostro cinema queste cose si facevano. Adesso, ognuno sta per conto suo».

Da che cosa è partita l'idea del film?

«Da un cassetto. Dopo tentativi a vuoto con il produttore Aurelio De Laurentiis, lo sceneggiatore Pasquale Plastino (qui co-scrittore con Massimo Gaudioso n.d.r.) m'ha detto: Apri il cassetto, vedi che cosa abbiamo scritto due anni fa. Così ho trovato gli appunti su un investigatore privato, personaggio che di fronte ha sempre mille avventure, perciò risulta interessante. Può essere anche un miserabile, uno costretto a inseguire cani, gatti e pappagalli come il mio Arturo. Poi è arrivata l'intuizione su un attore, che perde la memoria. Quando ha letto il copione, Albanese è entrato nel panico: aveva uno spettacolo teatrale e temeva di non ricordare le battute. Proprio come il suo personaggio nel film».

A quale regista si è ispirato, per il suo giallo comico?

«Forse al Woody Allen di 15-20 anni fa. Ma io sono soltanto un commediante di commedie all'italiana e Woody Allen è Woody Allen. Però ho tenuto presente anche le commedie francesi, per intrecciare la realtà con la favola».Stavolta, usa lo sfondo d'una Roma poco nota...«Volevo una Roma anni Cinquanta, con i bar dall'insegna antica, come se ne vedono nei film di Pasolini, o di Citti. Ho scelto Monteverde Vecchio, quartiere anni Venti-Trenta e il quartiere Castrense, bellissimo d'estate, quando si svuota. Volevo una Roma che torna indietro: devi cercare luoghi inconsueti, altrimenti è sempre la stessa solfa».

Un attore che dirige un altro attore: che tipo di regista è stato per Albanese?

«Non amo i registi che dicono: Facciamone un'altra!. L'attore va fatto sedere accanto a te, davanti al monitor. Così può correggersi. Infatti, il mio monitor è aperto a tutti e ognuno si può rivedere. Con Antonio attaccavamo presto, al mattino e andavamo come treni. La rapidità di esecuzione, con il primo ciak valido, ci ha aiutato».

E' vero che sul suo comodino tiene, fissa, l'opera omnia di Seneca?

«Sì: di Seneca amo soprattutto le lettere a Lucilio: restituiscono il senso del tempo che passa... Se noi tutti leggessimo, ogni sera, una lettera di Seneca, saremmo senza dubbio migliori. Per me, quando vado a dormire, sono come una carezza. Seneca mi guida. Mi incoraggia.

E' più efficace d'una pasticca di ansiolitico».

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