Qualche fan non è riuscito a seguire i mille rivoli sonori delle sue contaminazioni; in compenso lui ne ha guadagnati tanti altri - in Europa e nel mondo - allargando lo spettro stilistico in tante sperimentazioni che inglobano blues, jazz, melodismo mediterraneo, suoni etnici. A 58 anni Pino Daniele resta il pioniere del «Naples Power», quel suono moderno e raffinato - con tanta voglia di esportazione - lontano anni luce dai neomelodici. In un periodo in cui molti artisti tirano i remi in barca o fanno i conti con la crisi, Pino vive un periodo di fertilità creativa che lo ha portato a una lunga tournée in America appena conclusa. Ed è solo l'inizio di un lungo periodo di concerti che lo vedrà impegnato martedì a Umbria Jazz insieme a Mario Biondi e mercoledì al Foro Italico di Roma, per la prima volta con un'orchestra sinfonica, prima di scatenarsi (il 30 luglio) al Lucca Summer Festival insieme al glorioso bassista jazz Marcus Miller e di ripartire in ottobre per un altro tour internazionale. In più scrive nuove canzoni e ha in testa tanti nuovi progetti.
Ma chi glielo fa fare?
«La passione, il richiamo della musica. Un chitarrista non smette mai di suonare. I miei esempi sono B.B. King, Eric Clapton, il blues è qualcosa che hai dentro e non ti molla mai. Ne parlavo pochi giorni fa con Zucchero, chi fa il blues non molla, nemmeno quando diventa insopportabile il business intorno alla musica».
Ed è così insopportabile il business?
«Diventa insopportabile quando si pensa solo e soltanto al mercato senza guardare alla qualità. I media macinano tutto ma oggi in televisione passa anche della buona musica, nonostante i Tg e l'informazione siano dominati dalle correnti politiche e dai giochi di potere».
Comunque la musica è in crisi, come tutto del resto.
«Non c'è crisi nel mondo della musica ma nei supporti. Ovvero c'è tanta creatività ma si vendono pochi dischi, per fortuna ci sono i concerti che riconciliano col pubblico».
Ci racconta la sua tournée americana?
«È il sangue misto del blues che mi guida. In America sono stato accolto alla grande in spazi dove di solito gli italiani non vengono invitati come il Jazz festival di San Francisco, dove ho suonato accanto a giganti come Steve Gadd e David Sanborn. Il pubblico è molto caldo e competente, ed è importante far sapere al mondo che da noi non c'è solo il belcanto, ma anche tanto blues e rock che non ha nulla da invidiare a nessuno».
Martedì sarà a Umbria Jazz...
«E con me ci sarà Mario Biondi, uno degli artisti a me più affini per sensibilità sulla black music. È la quarta volta che m'invitano a Perugia, e bisogna sempre dare il massimo per il pubblico dei jazzofili».
Poi mercoledì c'è il debutto con l'orchestra sinfonica.
«Mi esibisco per la prima volta con un'orchestra. Sarà un brivido suonare il blues accompagnato dagli archi, ma eseguirò anche i miei classici melodici. Se andrà bene voglio portare il concerto con orchestra in altri luoghi e lo registrerò dal vivo. Potrebbe venirne fuori un disco».
Dal jazz alla classica: cambia vestito ogni giorno.
«Mi evolvo ma seguendo sempre il mio percorso e le mie radici. Blues vuol dire rispetto per la tradizione e al tempo stesso inserire il proprio suono nell'attualità. Non seguo le mode e non scrivo canzoni per i cellulari. Mi vanto di non fare mai ciò che mi si chiede se non ne sono convinto».
E dei talent cosa pensa?
«Non li abbiamo inventati noi ma gli americani, perché in questo Paese non si inventa più nulla. Non sono talent di contenuto, ma dimostrazioni di bravura, però hanno partorito grossi personaggi come Marco Mengoni, Emma, Alessandra Amoroso. Quelli di oggi sono talenti diversi; Mengoni ha una voce eccezionale, mentre De André, ad esempio, vocalmente non era un granché però il suo canto era poesia. Ecco la differenza».
Dopo l'album La grande madre, inciso per la prima volta senza una grande etichetta, sta preparando un nuovo disco?
«Ho scritto diverse canzoni e continuo a scrivere, ma non ho ancora deciso quando le registrerò».
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