Cultura e Spettacoli

"Io, di sinistra, sono agnostico e credo poco in questa giustizia"

A novant'anni il grande scienziato parla di amori, successi, politica e amici (tra cui Indro Montanelli). Senza rimpianti

"Io, di sinistra, sono agnostico  e credo poco in questa giustizia"

Esce oggi il libro, scritto a quattro mani da Umberto Veronesi e Annalisa Chirico, Confessioni di un anticonformista. Storia della mia vita (Marsilio, pagg. 236, euro 18,50). Per i suoi 90 anni Veronesi ci consegna una biografia privata in cui tocca molti aspetti: dall'infanzia povera nella campagna milanese all'emancipazione in città, dall'apprendistato sessuale con le prostitute al primo amore. La famiglia, i figli, i tradimenti, i dolori di Sultana (la moglie), il figlio avuto dall'amante. C'è la Milano di Enrico Cuccia, c'è la politica (fu ministro con Amato), c'è la Milano da bere, Craxi, Montanelli e la giustizia (Veronesi sostiene che le carceri debbano essere trasformate in scuole per riabilitare i colpevoli e che le intercettazioni andrebbero abolite) e ci sono posizioni forti a favore del vegetarianesimo e dell'utero in affitto. Per gentile concessione dell'editore, anticipiamo due stralci del libro.

«Oggi vorrei che parlassimo delle mie campagne per i diritti civili. Negli ultimi incontri ci siamo dilungati fin troppo sulla mia vita privata». Il professore mi accoglie così nel suo studio, e capisco che devo accontentarlo. Tra le mani ha un libro di Indro Montanelli del quale mi chiededi citare queste parole: «Io non mi sono mai sognato di contestare alla Chiesa il suo diritto a restare fedele a se stessa, cioè ai comandamenti che le vengono dalla dottrina ma che essa pretenda d'imporre questi comandamenti anche a me che non ho la fortuna di essere un credente, cercando di travasarli nella legge civile in modo che diventi obbligatorio anche per noi non credenti, è giusto? A me sembra di no».

Umberto, è noto che sei un «non credente agnostico», come dici tu. In pochi, invece, sanno che sei stato un grande amico di Montanelli.

«Indro era una persona fuori dal comune, uno spirito controcorrente, l'incarnazione della Milano laica degli anni Ottanta. Andavo spesso a cena a casa sua, lui e la compagna erano molto accoglienti. Alle 11 in punto, terminata la cena, Indro spariva, si volatilizzava lasciando i commensali a tavola. Era venuto il momento di andare a dormire. Avevamo diversi punti in comune. Insieme abbiamo condotto una battaglia per l'eutanasia, entrambi pensavamo che chiudere i bordelli per legge, con la normativa Merlin, fosse un errore. Avevamo la stessa visione sulla necessità di uno Stato laico. Eravamo invece in disaccordo quando tirava fuori la sua anima di destra nazionale. Io ero un uomo di sinistra. Pur non essendomi mai iscritto a un partito, neanche al Pci che in quegli anni a Milano era molto radicato, frequentavo i circoli comunisti e la maggior parte dei miei amici aveva la tessera. A dire il vero, non mi sono mai iscritto neanche al Pd, di cui pure sono stato senatore».

Ricordi un episodio da cui emergeva questa spaccatura politica tra voi?

«Per esempio, quando esplose la cinematografia neorealista italiana del dopoguerra con i grandi capolavori di Roberto Rossellini e Vittorio De Sica che ritraevano un'Italia derelitta e affamata, Montanelli polemizzò pubblicamente con i registi, colpevoli, a suo dire, di ledere l'immagine della patria dinanzi al mondo intero. Non ero d'accordo: non spettava all'arte cinematografica diffondere una certa immagine del Paese. Inoltre mi era del tutto estraneo il sentimento nazionalista che animava Indro. Quando nel 1948 uscì nelle sale il film di De Sica Ladri di biciclette, lo trovai formidabile. Ne parlai con Indro, che invece lo stroncò duramente.

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L'inchiesta Tangentopoli che fece fuori la classe dirigente di due partiti, Dc e Psi, segna l'ascesa politica di un pm schierato contro gli stessi che ha accusato in tribunale. Oltre quaranta suicidi in due anni.

«Il pool di Mani pulite fece un uso esteso della carcerazione preventiva. L'ex presidente dell'Eni, Gabriele Cagliari, si tolse la vita in cella da presunto innocente. Scelsero la stessa sorte numerosi politici e imprenditori che non sopportavano l'idea di finire dietro le sbarre, salvo poter riacquistare la propria libertà personale in cambio di una confessione o, peggio ancora, delle accuse nei confronti di terze persone. Le notizie dei suicidi diffuse dai tg in quei mesi mi impressionarono, era chiaro a tutti che qualcosa nella macchina giudiziaria non stesse funzionando a dovere. Le responsabilità penali si accertano attraverso un processo in cui accusa e difesa possano confrontarsi su un piano di parità, non mediante la tortura mascherata per custodia cautelare in carcere».

Le manette facili, senza una sentenza di condanna, sono la regola in Italia.

«In un paese civile una persona indagata o imputata non dovrebbe finire in carcere a meno che non sia colta con la pistola fumante in mano, nella flagranza di un reato di sangue. Io non mi fido neanche dei collaboratori di giustizia, un'altra patologia tutta italiana, troppo spesso se n'è fatto un uso scriteriato. La legge sui pentiti è una legge sui delatori. Se so che accusando una terza persona otterrò uno sconto di pena o un beneficio penitenziario, ho obiettivamente un incentivo a muovere accuse, e non m'importa se siano in parte o totalmente infondate. Basti pensare al caso di Enzo Tortora. Come sappiamo, i magistrati che diedero credito a personaggi assai discutibili sono stati promossi fino a raggiungere i vertici della magistratura. Alla fine Tortora si ammalò e morì pochi mesi dopo la sentenza di assoluzione».

Fra le storture della giustizia italiana c'è l'abuso delle intercettazioni telefoniche. Nel nostro paese si fanno circa il doppio delle intercettazioni rispetto a Francia, Germania e Regno Unito messi insieme.

«L'abuso delle intercettazioni è un male italiano, io sono sempre stato contrario. La regola in Italia è intercettare tutti, avranno intercettato pure me sebbene io non l'abbia mai saputo. In un paese dove tutti sono intercettati non esiste più la libertà di comunicare. È un paese che ha ceduto da tempo allo Stato di polizia. Intercettare è, per principio, un errore come aprire la corrispondenza privata di un'altra persona. Si dice che origliare le comunicazioni altrui favorirebbe la trasparenza. Ma a quale costo? Possiamo forse rinunciare alla nostra privacy per diventare tutti protagonisti e vittime di un Grande Fratello orwelliano? La lotta alla criminalità va condotta con altri strumenti. Non è vero che le inchieste non possano mai fare a meno delle intercettazioni.

Forse in Francia o in Inghilterra le indagini sono meno efficaci che in Italia?».

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