Sì forse degli elogi o degli auguri di questi giorni, Giorgio Gaber avrebbe sorriso oppure ne avrebbe fatto un testo. Alla maniera sua e di quell'altro geniaccio di Sandro Luporini. Il Signor G compie ottant'anni, chissà cosa penserebbe dell'Italia di oggi, sarebbe felice oppure no e via dicendo.
Ma non ha molto senso ora chiedersi se questo fuoriclasse in senso letterale (gli altri erano omologati in classe, lui no) avrebbe titolato una canzone Qualcuno era populista oppure se l'establishment lo avrebbe elogiato o censurato. Qualcuno ha scritto che neppure adesso lo capirebbero. In realtà Gaber è stato sempre capito, magari superficialmente, altrimenti non sarebbe stato temuto e criticato random, cioè sia a destra che a sinistra in ordine sparso, senza scadenze precise. Usciva un suo spettacolo e, se era ad esempio Polli d'allevamento (1978), lo criticavano gli allora giornali comunisti, con un mitragliante Michele Serra. Usciva il 45 giri con un brano come La libertà (quello del 1973 con il verso male interpretato «Libertà è partecipazione») e la destra lo prendeva di mira. Specialmente a quel tempo, chi non si schierava era per forza un avversario. Il pensatore libero, cioè Gaber, era quindi avversario di tutti, ogni sua frase veniva sfruttata «contro» qualcosa o qualcuno. Non a caso, l'unica etichetta che a stento accettava era «anarcoide». La sua carriera lo è stata. La sua vita no: una moglie per sempre, Ombretta Colli, una figlia adorata, Dalia, una passione maniacale per il lavoro fino alla fine.
Si era fatto conoscere agli italiani prestissimo, al Musichiere proprio come Mina e Celentano, e divenne uno dei golden boy della musica leggera, uno dei primi a capire, anche come chitarrista, che dall'America la risposta musicale soffiava nel vento del rock'n'roll. Poi la tv lo rese famoso giovanissimo, quando viveva ancora in via Londonio a Milano con la sua famiglia (ieri il condominio gli ha dedicato una targa). A neppure trent'anni Gaber era già oltre. Nasce il Teatro Canzone, una delle formule espressive e artistiche più grandi e inimitabili del Novecento. Gli spettacoli come Libertà obbligatoria o Io se fossi Gaber o Far finta di essere sani sono frustate alla coscienza collettiva, avamposti del pensiero libero, campi minati per i luoghi comuni. Come ogni artista fuori dal coro, Gaber veniva capito per quanto possibile e sfruttato, specialmente dalla Rai, soprattutto per le sue storie o i suoi testi più politicamente neutrali. E, come ogni visionario, è stato capito soprattutto dopo. Negli anni Novanta, quando recitava cantando Qualcuno era comunista, in platea si commuoveva anche chi non era mai stato comunista e, addirittura, vent'anni prima dava del comunista proprio a Gaber.
E oggi?
Come vivrebbe oggi nella società dell'immagine, galleggiando tra le fake news, fuggendo il viscido pedinamento dei social? Vivrebbe come allora. Facendo incazzare tutti. Creando appartenenza perché «Gaber è partecipazione» di chi non partecipa per scelta consapevole e magari sofferta. A differenza del suo tempo, quest'epoca è molto più frenetica, istantanea, fulminea e quindi ci sarebbe una «quota Gaber» di polemiche molto più frequente di allora. E la sua libertà di pensiero sarebbe notata molto più di quanto lo sia stata allora. Tra gli anni Settanta e i Novanta (ma anche dopo, a pensarci bene) non era possibile essere «altro». O si era di destra o di sinistra. O di qua o di là. Lui non era né di qua né di là perciò c'erano lanci di bottiglie ai suoi spettacoli, fischi e contestazioni. Proprio nel periodo di Polli d'allevamento disse: «Quando finisco lo spettacolo, so benissimo che s'incavoleranno, che fischieranno, sento questa cosa che mi arriva addosso e di nuovo rimango con l'occhio spalancato di notte, mi ritrovo a non addormentarmi fino alle otto di mattina per superare questo choc dello scontro».
Già allora la scintilla dei suoi spettacoli, dei monologhi e delle canzoni era la fuga dalla massificazione, dall'omologazione spacciata per libertà. E quindi i suoi testi di ieri spiegano anche la vita di oggi e della società definita fluida ma clamorosamente omogenea perché tutti hanno gli stessi tic, le stesse forme di comunicazione e cascano nelle stesse trappole conformiste. Oggi sarebbe una pacchia per Gaber. O, forse, non avrebbe più voglia di ripetersi e riderebbe nella sua Versilia, dove il primo gennaio del 2003 se ne è andato a 63 anni.
Nel 2001 aveva pubblicato La mia generazione ha perso, generosamente catalogandosi all'interno di una generazione sconfitta. In realtà non ne aveva mai fatto parte se non per poco, giusto il tempo di prendere appunti e poi fare arrabbiare tutti.
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