L'arte di Keith Haring, specchio degli anni '80 ma con radici antiche

L'esposizione di Milano svela i debiti dell'artista con primitivismo, aztechi, Picasso, pop art...

L'arte di Keith Haring, specchio degli anni '80 ma con radici antiche

Nonostante il suo lavoro si basi sull'incessante ripetizione di figure, segni, contorni in fondo sempre uguali a se stessi, Keith Haring (Reading, 1958 New York, 1990) continua a essere studiato dagli storici e proposto al pubblico che lo apprezza per l'originalità e per come sia stato lo specchio di un decennio straordinario e contraddittorio, gli anni Ottanta.

Certo Haring non ha il talento di Jean-Michel Basquiat (New York, 1960 1988), la sua capacità inventiva e la sua follia pittorica. Però rispetto al «collega» con cui condivide il tragico destino di una fine ben prima del tempo - morti entrambi a neppure un anno e mezzo di distanza - è preciso, chirurgico, e il suo inconfondibile stile si impone non solo nelle opere importanti ma anche in tutti quegli usi quotidiani, dalle T-shirt alle stampe, dagli orologi Swatch ai primi interventi nella metropolitana, che ne confermano la predisposizione verso un'arte popolare, fruibile da tutti, una pittura molto semplice ma mai banale che identificava in pieno lo spirito dei tempi.

E Keith non è neppure personaggio da copertina, certo molto meno di Francesco Clemente o di Jeff Koons, emersi negli stessi anni, e forse per questa ragione piace ai ragazzini che si vestono come lui, che si identificano in quel coetaneo senza atteggiamenti da star, con gli occhialetti tondi, le snickers ai piedi, uno che non ha il physique du role dell'artista da galleria di SoHo.

Dopo la scomparsa, nel febbraio 1990, Haring è stato oggetto di diverse mostre molto importanti anche in Italia, dove peraltro ha lasciato uno dei suoi ultimi interventi pubblici a Pisa e dove era stato proposto in diversi group show da Francesca Alinovi, il critico che lanciò qui da noi l'arte di frontiera prima di essere uccisa; al Castello di Rivoli e in Triennale a Milano si ricordano due potenti esposizioni di ottimo livello.

Non è dunque semplice riproporne il lavoro da un punto di vista originale, visto che la sua produzione peraltro fitta si limita a un decennio scarso. Eppure Keith Haring. About Art, che apre oggi al Palazzo Reale di Milano (fino al 18 giugno, prodotta dal Comune di Milano con 24Ore Cultura e Giunti) vuole aggiungere un nuovo tassello alla filologia di colui che consideriamo tra gli inventori della Graffiti Art, leggendolo non tanto come il riflesso del suo tempo, quanto a partire dalle connessioni e dai rapporti, più o meno voluti, con la storia dell'arte, fino ad affondare le radici persino nell'archeologia e nel primitivo.

Ben 110 opere, alcune di grandi dimensioni, molto spettacolari, dove Haring esprimeva il meglio di sé, ordinate dal curatore Gianni Mercurio. Prima di affrontare le connessioni con il passato è però importante ricordare che Haring, liquidato talora come un fumettista, un disegnatore compulsivo, un decoratore urbano, è anche l'espressione di una controcultura politicamente impegnata.

Pur evitando proclami e manifesti, Keith dice la sua su questioni molto urgenti nei pur «ludici anni Ottanta»: droga, razzismo, omosessualità, dramma dell'Aids, minaccia nucleare, discriminazione sono tutti temi che gridano sotto la fitta coltre di figurine semplici, perché la sua idea di arte sarà stata pure l'evoluzione del pop ma al contempo non può evitare di «denunciare» le contraddizioni di una società apparentemente frivola e spensierata, dove la morte era in agguato.

About Art è divisa in sezioni che propongono il lavoro di Haring in spericolati seppur stimolanti confronti con il passato. Resta da capire quanto questa sia una lettura del curatore che suona strana per un giovane artista della Pennsylvania, si studente con merito alla School of Visual Arts, ma non così colto rispetto alla tradizione europea. I riferimenti proposti sono davvero molteplici: la Colonna Traiana, la Bibbia illustrata da Marc Chagall, la lupa capitolina, le statue azteche, Hieronimus Bosch, Masaccio, l'iconografia di San Sebastiano, le sculture del Bernini, Michelangelo, Caravaggio, risalendo fino all'etnografia di figure archetipiche di epoche lontane.

E poi c'è tutto il Novecento classico a cui Keith Haring sembra attingere a piene mani, cominciando dal Picasso africano, per continuare con l'Art Brut di Jean Dubuffet, e ancora Magritte, Tobey, il dripping di Pollock, Calder, Matisse e ovviamente Andy Warhol, tornato in auge negli anni Ottanta per i giovani che vedevano in lui un guru ispiratore, la prima figura di riferimento.

Da espressione dell'hic et nunc newyorkese che, a partire dalla leggendaria mostra The Times Square Show dell'agosto 1980, rivoltò come un calzino la noiosa pittura accademica e di galleria, in questa mostra Haring viene proposto come una figura di sintesi.

Ipotesi affascinante, anche se è più credibile si sia nutrito di una vorace curiosità che gli faceva cercare di tutto e dappertutto.

Continuo a pensare che Haring non sia stato un grandissimo della storia dell'arte, piuttosto il punto di riferimento visivo di un decennio fantastico, nella sua tragica brevità.

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