Cultura e Spettacoli

L'epopea disperata dei nostri prigionieri: o morire nella neve o passare anni nel gulag

Pubblicate le memorie di uno dei pochi superstiti della "Marcia della morte"

L'epopea disperata dei nostri prigionieri: o morire nella neve o passare anni nel gulag

Pietro Amani*

Un nostro compagno con uno straccio bianco raggiunse il nemico per ricevere le istruzioni per la resa. Tornò verso di noi con quattro gallette e due scatolette di carne, dicendo che i russi erano buoni e comprensivi; quindi ci invitò a gettare qualsiasi tipo di arma e ad arrenderci.

Intanto i russi si avvicinavano sempre di più, ma improvvisamente uno dei nostri feriti imbracciò il fucile e uccise un soldato nemico. Subito i russi si misero al riparo e cominciarono a sparare con pallottole esplosive. La sparatoria durò circa venti minuti e costò la vita a tanti soldati italiani fra i quali il mio amico Vergani. Dopo la sparatoria essi si presentarono di nuovo con parole e modi più rassicuranti, ma appena ebbero il sopravvento, balzarono in mezzo a noi picchiando, sparando ed uccidendo chiunque avesse fatto qualche mossa sospetta. Ad un tenente che non ubbidì subito ai loro ordini, spararono alla tempia e dissero agli altri che chi non si fosse subito alzato in piedi per scendere dal camion, avrebbe fatto la sua fine. Intanto non smettevano di gridare selvaggiamente bistria, bistria, che significa: presto, presto!

Io fui uno dei primi ad alzarmi e a scendere dal mezzo. Appena a terra uno di loro mi puntò addosso il mitra perché avevo ancora la pistola appesa alla bandoliera. Avevo le mani alzate e lui gridava parole che io non comprendevo; riuscii infine a capire che dovevo liberarmi dell'arma; poi il russo mi si avvicinò, mi tolse l'orologio e mi dette un calcio che mi fece rotolare per terra, sempre continuando ad urlare. Con una tremenda paura gettai via la bandoliera e camminai a testa bassa verso i prigionieri già raggruppati, temendo una scarica di mitra nella schiena come era capitato a tanti altri. I nostri aguzzini portarono poi a termine un vero e proprio sterminio, in quanto i feriti che non potevano in qualche modo camminare furono tutti trucidati.

Il calvario non era finito, anzi era appena cominciato; ci portarono vicino ad un piccolo paese, ci fecero sfilare davanti alle cineprese e, per dimostrare che i prigionieri erano tanti, per tutto il giorno continuarono a farci passare davanti agli obiettivi. Già allo stremo delle forze per la fatica, le ferite, la sete e il sonno, alla sera ci inquadrarono per tre e da quel momento cominciò per noi la marcia del davai o marcia della morte. Se non sbaglio era il giorno di Natale del 1942; camminammo fino alle 4 o alle 5 del mattino seguente e poi facemmo una breve sosta in un vecchio mulino, dove non c'era posto per tutti, nemmeno stando in piedi. Appena fu giorno riprendemmo la marcia. È qui che ho visto qualche donna russa avvicinarsi alla colonna per soccorrere qualche soldato conosciuto in altre circostanze, perché ci trovavamo nel territorio un tempo occupato dagli italiani. Strada facendo incontrai un amico di Piacenza; gli confidai che per me non c'era più niente da fare: ero ferito e congelato e non ce la facevo più a camminare. Lui cercava di incoraggiarmi ma io, pur non essendo un coraggioso, avevo deciso di farla finita, perché tanto era questione di ore. Quando uno non riusciva più a tenere il passo degli altri, un colpo di fucile risolveva il problema. Il mio compaesano si chiamava Botti Lodovico e ci volevamo molto bene, ma quando capì che non poteva più aiutarmi, mi baciò di sfuggita e poi raggiunse gli altri.

A pochi passi da me c'era l'ultima guardia; lo guardai in faccia e lui pure mi dette un'occhiata tranquilla. Non aveva le caratteristiche somatiche degli asiatici: sembrava un europeo. Ad un tratto, forse per lo sconforto, mi tirai in disparte e slacciatomi i pantaloni, misi le braccia incrociate davanti agli occhi, aspettando la fine. Il soldato mi si avvicinò e con la punta della scarpa mi alzò le braccia per guardarmi in faccia; lo fissai e di scatto, come a rimproverarlo perché non aveva fatto il suo dovere di aguzzino, mi alzai e pronunciai l'unica parola che credevo di conoscere in lingua russa: «Kaputt». Lui mi guardò fisso negli occhi, che probabilmente erano pieni di lacrime, e mi disse: «Pacimu kaputt?» (perché vuoi morire?). Io non risposi, allora mi fece capire che la colonna si sarebbe fermata per un po' di riposo, così potevo approfittarne per raggiungerla. Accettai il suggerimento e, facendo appello alle poche energie che mi erano rimaste, riuscii a portarmi un poco avanti. Nella notte, però, nell'attraversare un grosso paese che si chiamava Boguciar, mi ritrovai ancora in coda.

*Fante dell'82° Reggimento. Fanteria, Divisione Torino

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