Cultura e Spettacoli

Luce, spazio e tempo Van Gogh come Einstein

Ottandue opere, molte celebri, del grande artista per raccontare la storia di un eroe umanissimo

Luce, spazio e tempo Van Gogh come Einstein

C'è uno scritto famoso di Albert Einstein, intitolato Come io vedo il mondo; ebbene, se chi scrive dovesse dire nel modo più semplice come vede il mondo, intendendo per visione proprio ciò che la vista offre, la risposta sarebbe: come i quadri di Vincent Van Gogh. E questo per merito (si fa per dire) di una straripante miopia, grazie alla quale, senza occhiali, le nuvole appaiono cavalloni, le stelle giganteschi fuochi, un normale paesaggio verde pare un mare in tempesta. Questo, ovviamente, attiene soltanto alla visione, non certo alla capacità di tradurla in dipinto... Eppure, tornando all'inizio, cioè ad Einstein e alla sua visione del mondo, c'è qualcosa che ha a che vedere con il pittore olandese (oltre al fatto che entrambi siano delle icone), e sono tre grandi concetti, ovvero il tempo, lo spazio e la luce, i quali, in entrambi, si fanno non solo teoria, bensì concretezza. E sono ancora più concreti, ed evidenti, nella mostra che il Centro San Gaetano di Padova ospita, Van Gogh. I colori della vita (dal 10 ottobre all'11 aprile 2021), poiché il percorso espositivo è stato concepito da Marco Goldin, curatore e fondatore di Linea d'ombra (che ha organizzato l'esposizione e festeggia così i suoi primi 25 anni, nel 2021), proprio come un viaggio esistenziale, in cui i dipinti sono legati al tempo - cioè alle relazioni di Van Gogh con familiari, amici e altri pittori - allo spazio, cioè ai luoghi in cui ha vissuto e che ha dipinto nei dieci anni della sua attività e, infine, alla luce, quei «colori della vita» che sono il suo marchio inconfondibile.

Le opere arrivate in prestito da tutto il mondo, in particolare dal Kröller-Mueller Museum di Otterlo, sono 96, 82 di Van Gogh, alcune delle quali famosissime, come l'Autoritratto con cappello di feltro grigio (1887), i Mietitori (1888), il Seminatore (1888), il Ritratto del postino Joseph Roulin (1888), il Paesaggio a Saint-Remy (1889) e il Paesaggio con covoni e luna nascente (1889); oltre ad alcuni dei lavori di Seurat, Signac e Gauguin che Van Gogh vide a Parigi, con i suoi occhi, nei due anni in cui visse lì con il fratello Theo; e ci sono tre degli Studi per un ritratto di Van Gogh (1956-57) realizzati da Francis Bacon, da cui si parte, perché il filo rosso interpretativo della mostra è quello della figura del pittore come «eroe», colui che ha una missione, ma un eroe «umanissimo», un eroe in cammino (l'olandese copriva anche 150 km a piedi in due giorni), destinato al fallimento. Ma «non pazzo». Un'immagine ben diversa da quella dell'artista maledetto, folle e geniale, che pure ha contribuito, negli anni, a fare del pittore olandese una star dell'arte e delle aste e, anche, un fenomeno pop, tanto da finire sui gadget o protagonista di film. È il ritratto «reale» (e diverso dal cliché) proposto da Goldin anche in Van Gogh. L'autobiografia mai scritta (La nave di Teseo), saggio/romanzo che si basa sulle quasi mille lettere dell'epistolario di Van Gogh (in parte ritradotto), la maggior parte delle quali indirizzate al fratello, suo primo sostenitore, in senso artistico e materiale. È nelle lettere che, già negli anni dal 1872 al 1880, Vincent esprime la volontà di «immergersi» nella vita reale, in quanto piena di verità («ho avuto una lezione da un falciatore che mi è servita molto più di una lezione di greco»); da lì la decisione di studiare il disegno, di cui in mostra vi è ampia testimonianza, fin quando si trasferisce in Belgio, alla miniera del Borinage (è di questo periodo i Minatori nella neve, il disegno più antico rimasto) e poi torna nella sua terra natale, nel Brabante, e, alla fine del 1881, all'Aia, dove inizia la sua ricerca di «tutte le scene possibili con figure», e le sue figure non sono signori che vanno a messa in tight, sono tessitori, minatori, contadini, poveracci. È da qui in poi che il colore inizia a entrare nella sua ricerca pittorica e cruciale in questo è il ritorno a Neunen, nella casa dei genitori, dove trova quello che, fino ad allora, gli era mancato: un paesaggio. È la natura, di cui, per Van Gogh, bisogna avere una «conoscenza intima» e infatti lui la «scandaglia», in essa si immerge per cogliere ogni dettaglio, per renderne non la perfezione, bensì l'emozione, per fare sì che quella «conoscenza intima» della natura corrisponda anche alla «conoscenza intima» di sé, per riuscire a esprimere la propria anima attraverso la rappresentazione della natura e i suoi colori, che magari non saranno quelli reali, ma quelli che lo spirito percepisce, in quel momento («molto giallo», come nel Seminatore, dove è giallo perfino il cielo). Quel colore che colpisce al cuore, il pubblico di massa come i collezionisti, e che rende Van Gogh uno degli artisti più amati - e questa mostra, la più grande dedicata a lui in Italia - uno degli eventi del 2020, di quelli che, in tempi di non pandemia, avrebbe registrato il tutto esaurito ancora prima di cominciare. Vedremo che cosa succederà. Certo la scelta di inaugurare è stata «coraggiosa e complicata», come ha sottolineato Goldin, in un momento in cui i musei hanno perso percentuali drammatiche di visitatori e di introiti.

Padova spera, e si prepara ad accogliere i fan dell'olandese, attirati da alcuni dei suoi capolavori più famosi; e infatti, spostandosi in terra di Francia, prima a Parigi e poi ad Arles, si arriva in quel sud di luci e colori, di pennellate a tratti, lo straordinario Vigneto verde che dipinge per arredare la casa gialla per l'arrivo dell'amico Gauguin, i «ritratti» degli amici di Arles, i Roulin e i Ginoux (li realizzava in un paio d'ore, scatenando l'ira di Gauguin), l'Autoritratto prestato dal museo Van Gogh... E poi la fine, l'anno in manicomio a Saint-Remy, nel 1889, dipingendo attraverso le sbarre della sua finestra capolavori come il Paesaggio a Saint-Remy o il Paesaggio con covoni e luna nascente, campi di grano, nuvole e luce, fino alla fine, fino all'ultima settimana in cui ancora crea il Covone sotto un cielo nuvoloso (1890), senza mai smettere, perché, come scriveva a Theo, «prima la fatica, poi la gioia».

Come un eroe umano, che già presagiva la sua fine, fatta di spazio, tempo e tanta luce.

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