Un lungo viaggio nei luoghi che fanno sparire la storia

La Route 66, gli Ufo, i tornei di sumo, l'immensità dell'Alaska. E l'ufficiale che decapitò Mishima...

Foto d'archivio, Wikipedia
Foto d'archivio, Wikipedia

È difficile capire a cosa rimandino Le civette impossibili che danno il titolo a questa raccolta di articoli di Brian Phillips (Adelphi, pagg. 318, euro 20, traduzione di Francesco Pacifico). Forse l'immagine che nel libro più le rappresenta è quella di una «furia fatata», «segugi demoniaci che volano in cerchio sul cielo» e chi li vede «è maledetto, o costretto a unirsi a loro, o condannato a morire». Ne consegue che un possibile fil rouge sia l'impossibilità di sottrarsi alla fascinazione che si impone al narratore, quasi un obbligo a narrare quella storia e poi un'altra, riunendole così in un continuum altrimenti privo di senso. Non c'è infatti logica apparente che leghi il resoconto di una corsa di cani da slitta attraverso l'Alaska ai rituali che scandiscono gli incontri di sumo in Giappone, all'interrogarsi sulla plausibilità o meno degli Ufo nell'America profonda...

Secondo la nota biografica, l'autore è stato uno dei fondatori e delle firme illustri di Grantland, definita «la rivista di reportage sportivi più sofisticata degli ultimi anni», ed essendo ignoranti in materia accettiamo la definizione senza discutere. La nota informa altresì che Le civette impossibili è il primo libro di Phillips, un americano quarantenne, nato in una città di provincia degli States e quindi tanto più interessato alla storia e alla memoria in quanto facente parte di una nazione giovane che con entrambe ha una dimestichezza relativa, avendo oltretutto sradicato con violenza quell'unica e nativa civiltà pellerossa trovata in loco.

È questo un tema fortemente sentito da Phillips, come per esempio nel reportage al centro del libro e dal titolo «L'autostrada perduta»: «Qui è proprio il paesaggio a ricordare quel vuoto. Tra te e la storia americana ci sono meno strati protettivi. Ossia: sai che una storia d'invasione, deportazione e (diciamolo) genocidio permea quasi ogni luogo di questo paese. Ma di solito sei spinto alla distrazione da tutto ciò che ti circonda, da tutto il rumore e lo scintillio della cultura contemporanea (...). Quelle forze, qui, non operano. Sulla Route 66, anzi, vieni persino sottilmente convinto a riflettere sulla distruzione delle culture antiche, della cultura tutta». Ne deriva una lettura del fenomeno degli Ufo «come una specie di resa dei conti psichica, camuffata, con il terrore-senso di colpa della xenofobia bianca». Detto in altri termini, «tutte quelle persone, quelle storie, cancellate: dove vanno a finire? Cosa succede alla tua coscienza di loro, quando quasi ogni aspetto della realtà in cui vivi ti dice di nasconderli alla tua coscienza? Forse, ho pensato, ciò che succede è che tornano come sogni, come incubi, figure surreali di punizione e mutamento. Come esseri che vengono a cercarti nel buio». Per inciso, molte storie di avvistamenti e/o rapimenti che hanno gli alieni come motivo conduttore, vedono sempre lo «spuntare delle civette a una frequenza inquietante», inspiegabili eppure reali...

Restiamo ancora un momento sul tema della storia e del suo sradicamento. Quel vuoto che Phillips trova sulla Route 66 è lo stesso che lo coglie sull'Iditarod, un percorso lungo 1600 chilometri, da Anchorage a Nome, fatto utilizzando cani da slitta, a una velocità media di dieci chilometri all'ora, della durata di una decina di giorni e a una temperatura di meno 25 gradi... «Eravamo in mezzo a una radura. A un tratto ho sentito... non voglio esagerare: non era disperazione, o qualcosa del genere, era solo malinconia, una fitta di desolazione. Una strana forma di solitudine dalla storia. L'Alaska ha il suo passato (...). Ma tutto questo non impregna il paesaggio. Negli Stati Uniti continentali hai sempre l'impressione che l'ambiente umano sia stato plasmato da coloro che sono venuti prima di noi. È una trama di cui anche noi facciamo parte, persino quando è sanguinosa o terrificante. Abbiamo dei punti di riferimento. E questo, ovviamente, può essere benissimo un incubo, ma nell'Alaska selvaggia, l'incubo è che quella cosa non c'è».

È anche questo a spiegare perché Phillips sia intrigato dal Giappone rituale, che raggiunge nella codificazione del sumo vette assolute, o dall'India misteriosa, che ha nei safari fotografici della caccia alle tigri il suo massimo di vedo e non vedo, la realtà dell'animale selvaggio in quanto percepita e, soprattutto, immaginata. È il primo una sorta di mondo fluttuante, «il cambiamento si abbatte come uno schianto, un'onda, la folla si separa e poi si riforma intorno a qualunque nuova realtà caduta dal cielo. Il modo in cui in un sogno si ricordano le cose non è esattamente come ricordare, ma tutto ciò di cui si è fatto esperienza può tornare in sogno». È anche però un modo che tanto più cerchi di rendere comprensibile esaminandone i dettagli, tanto più ti sfugge nella sua essenza. Phillips è bravissimo nello spiegare le minime sfumature che riguardano i lottatori di sumo, dal cibo all'estetica, alla competizione, al pubblico che li sostiene, ma ogni tentativo di andare più a fondo si rivela illusorio. Si prenda il viaggio che, in parallelo con la competizione sportiva del primo grande torneo dell'anno, egli intraprende alla ricerca di Hiroyasu Koga, uno dei giovani ufficiali del Tatenokai presenti al celebre seppuku di Mishima. Koga fu quello che decapitò lo scrittore con l'antica spada di quest'ultimo, non si uccise, perché così gli era stato ordinato, si fece quattro anni di carcere, entrò in seguito in un gruppo religioso, cambiò nome... «Al processo, disse che vivere da giapponese significa vivere la storia del Giappone. Che storia deve aver concepito, lui, pensavo, per aver detto quella cosa, per aver fatto quello che ha fatto. Al mio terzo giorno a Tokyo sono venuto a sapere che era ancora vivo».

Al momento però di incontrarlo, il reportage sfuma e si interrompe, come se rispetto al sumo, uno sport «il cui senso è rifiutarsi di morire, rifiutarsi di diventare storia, rifiutarsi l'inconsistenza del sogno», il venire in contatto con chi, invece, con la Storia del Giappone aveva cercato di vivere da giapponese, di seppellircisi, sia pure per interposta persona, si riveli superiore alle sue forze di occidentale, di americano solitario e a disagio con i simboli, il passato, la memoria...

Libro non privo di fascino, Le civette impossibili ha però il retrogusto amaro che lasciano i libri sprovvisti di un solido centro, un insieme a cui manca l'unità. L'ultimo capitolo, «Ma non la solita storia d'amore», è particolarmente lambiccato nel voler legare la vita famigliare dell'autore con altre figure illustri della sua città natale, uomini politici e petrolieri, le loro mogli più o meno strambe e più o meno infelici. Ponca City, così si chiama, già al tempo della sua adolescenza aveva «un centro città pieno di relitti decrepiti del boom petrolifero, quelle che un tempo erano state le grandi residenze e i tenenti della Marland Oil».

Phillips sogna di lasciarsele alle spalle perché cerca un posto dove le cose siano belle, «un mondo più vasto e più ricco», quello che, ragazzino, ha scoperto leggendo una copia di Poems of Byron, Keats and Shelley, una via di fuga», una «potenza capace di restituire le cose perdute». Ma resta l'impressione che i cani da slitta, il sumo o i cacciatori di tigri siano un pretesto e la ricerca del tempo perduto più complicata del mistero che circonda i dischi volanti.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica