Cultura e Spettacoli

"L'utopia dei Crespi: unire profitto e giustizia sociale. Non funzionò"

Fondarono un villaggio, perfettamente conservato, accanto alla fabbrica. Un libro ("Al di qua del fiume. Il sogno della famiglia Crespi") narra quel mondo di impresa e filantropia. Intervista all'autrice, Alessandra Selmi

"L'utopia dei Crespi: unire profitto e giustizia sociale. Non funzionò"

Arrivare a Crespi d'Adda ancora oggi genera una certa meraviglia. Le casette allineate degli operai, le alte ciminiere e la fabbrica che, più che un luogo di produzione, sembra essere un gioco di geometrie di Piero della Francesca. Crespi d'Adda è stato il sogno di un certo tipo di industrialismo filantropico ottocentesco. L'Utopia di Cristoforo Benigno Crespi (1833-1920) trasformata in mattoni e motori, che ancora resta lì a veder passare gli anni, ad essere visitata dai turisti e come patrimonio dell'Unesco anche adesso che il sogno dell'industria italiana ha preso altre, e più incerte, strade. Anche adesso che il cimitero, bellissimo quasi quanto la cittadina dei vivi, resta lì a ricordarci, con tutti i bambini morti nelle varie epidemie, che la forza razionale dell'uomo non riesce a creare città perfette, capaci di tenere fuori il male, o anche una più banale epidemia di gastroenterite in un'epoca senza antibiotici. Ecco Crespi d'Adda, e la dinastia industriale che l'ha fondata, sono un soggetto ideale per un romanzo storico. E dopo che l'imprenditoria italiana è diventata oggetto da Gigaseller con I leoni di Sicilia, incentrato sui Florio, era questione di tempo. L'idea è balenata ad Alessandra Selmi, scrittrice e agente letterario che dopo, più di un anno di lavoro di ricerca e scrittura, arriva in libreria il 23 agosto con Al di qua del fiume. Il sogno della famiglia Crespi (pagg. 484, euro 18) per i tipi dell'Editrice Nord. Le abbiamo chiesto di raccontarci in anteprima il romanzo.

Alessandra Selmi, come le è venuta l'idea di scrivere di Crespi d'Adda?

«Me ne aveva parlato mia nonna tanti anni fa. Dicendomi: Vai a visitarla. Poi due anni fa ho avuto come una piccola illuminazione. Ho prima fatto un minimo di ricerca. Poi sono andata e quando l'ho vista ho iniziato a pensare che lì ci fosse una storia da raccontare, che fosse perfetta per un romanzo. Per qualcosa che non fosse un saggio ma rendesse al lettore la sensazione di come si viveva lì, di quello che i Crespi hanno cercato di realizzare. Quindi diciamo che ci sono arrivata per caso ma non per caso...».

Alessandra Selmi

Ci racconta in poche parole cosa è stata Crespi d'Adda?

«Un villaggio operaio creato di sana pianta a partire da un progetto pensato per massimizzare la produzione ma anche il benessere degli operai. È stato uno dei primi d'Italia ed è meravigliosamente conservato infatti è patrimonio dell'Unesco. Cristoforo Crespi ebbe l'intuizione di portare questo modello produttivo e abitativo dall'Inghilterra ed ebbe la visione per creare un posto che, per l'Italia dell'epoca, era un'assoluta novità. Avere gli operai vicini alla fabbrica e controllabili era utile al padrone, serviva a guadagnare. Ma creava anche delle condizioni di benessere e protezione dalla povertà che per chi veniva da una vita contadina, molto più misera, erano un progresso incredibile. C'erano la chiesa, un emporio, un ospedale, spazi ricreativi, a partire dal 1877 viene creato un piccolo mondo unico nel suo genere».

Non fu comunque un percorso facile e ci furono anche inevitabili difficoltà e tensioni. Lei le racconta anche dando voce agli operai...

«Ovviamente non fu facile far convivere tanti individui diversi ed è stato un processo lungo. All'inizio vennero costruiti i cosiddetti palazzotti, che si rivelarono poco adatti a ospitare le famiglie. Dopo arrivano le casette bifamiliari ciascuna con il suo piccolo orto e una latrina esterna. All'inizio il tutto con una certa dose di egualitarismo, voluto da Cristoforo, poi negli anni Venti, sono arrivate le case più grandi per i capi reparto e anche le ville dei dirigenti».

Sul villaggio però incombeva la villa dei Crespi a forma di Castello medievale: non si può negare che fosse anche nella forma un segnale di potere e di controllo.

«Parliamo di un'epoca in cui il proprietario della fabbrica e del villaggio veniva comunemente chiamato il padrone c'erano differenze sociali schiaccianti che, però, all'epoca erano accettate. Molto a lungo Crespi riuscì a sfuggire alle tensioni, agli scioperi».

Ma poi?

«Poi la storia fa comunque irruzione, si parte con le cannonate di Bava Beccaris contro i milanesi per arrivare al disastro della Prima guerra mondiale. Il mondo a quel punto era troppo cambiato e il sogno di Cristoforo, che un po' si divertiva a fare Dio, ereditato dal figlio Silvio, non poteva più reggere. La storia spazza sempre via le intenzioni degli uomini. Però il villaggio è rimasto, è bellissimo e ci abitano ancora discendenti degli operai. Non è poco».

I personaggi della famiglia Crespi che lei racconta sono reali ma gli operai no.

«Esatto per gli operai ho lavorato di fantasia a partire, comunque, dalle fonti per raccontare quella parte di mondo che nel villaggio veniva dal basso. Ma ho cercato di essere aderente al reale. Ad esempio è vero che i figli degli operai al villaggio giocavano con i figli dei Crespi».

Famiglia Crespi

Come Amelia, che è il personaggio femminile principale e tesse il filo rosso della narrazione.

«Sì, l'ho immaginata proprio per questo, doveva avere l'età giusta per vedere tutto il percorso di Crespi ed essere amica di Silvio Crespi, l'erede della dinastia».

Perché i romanzi storici sulla storia delle dinastie industriali italiane di colpo sono diventati così di moda?

«L'editoria va a periodi, non saprei dire se c'è una formula che funziona e per quanto può funzionare. Per fortuna non lo sappiamo mai, se no i romanzi nascerebbero con lo stampino. In generale penso che le saghe familiari piacciano perché i sentimenti umani restano sempre gli stessi e ci piace vedere come si sviluppano in un mondo diverso dal nostro, un mondo molto più rigido. Questo aspetto il romanzo lo tocca naturalmente, i saggi molto meno».

Come ha lavorato alla creazione del romanzo?

«Il settanta per cento è stato ricerca, il trenta scrittura. So lavorare solo così. E quando ho finito la ricerca, solo il file delle date importanti era di quaranta pagine, mi sono messa a delineare i personaggi.

Solo quando ho avuto tutto chiaro ho iniziato a scrivere».

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