Cultura e Spettacoli

"La mania della medicina mi ha rotto, il mio futuro sarà fatto solo di coralità"

Il regista e protagonista di «Si vive una volta sola» parla del suo film. Fra goliardia e amicizia

"La mania della medicina mi ha rotto, il mio futuro sarà fatto solo di coralità"

«Che poi, questa storia che sarei affascinato da medicine e medici, m'avrebbe pure stufato!», sbuffa Carlo Verdone. Eppure, lui che, da ragazzino, s'è formato sull'Enciclopedia Medica Curcio e, da adulto, ha salvato la vita a più persone, con le sue diagnosi esatte, stavolta è contento di vestire il camice verde del chirurgo. E sguazza come un pesce nell'acqua fra bisturi e garze, mentre fa il primario di ferro nel film Si vive una volta sola (dal 27 febbraio nelle sale), dov'è regista e protagonista d'una commedia agrodolce con Rocco Papaleo, Max Tortora e Anna Foglietta, suoi amici e membri dell'équipe medica. Nei panni del professor Gastaldi, una vita professionale magnifica (tra i suoi pazienti, il Papa), ma un'esistenza arida, ravvivata da goliardate ciniche, Verdone fa un omaggio alla vita. Alla regia numero 27, soggetto e sceneggiatura scritti con Giovanni Veronesi e Pasquale Plastino, 6 milioni di budget, il comico firma un film di stampo teatrale. Né mancano fuochi d'artificio nel finale a sorpresa.

Cominciamo dal titolo.

«Si vive una volta sola lo diceva sempre mia madre. Non so quanto sarà divertente, ma sentivo il bisogno d'un film corale. È una storia d'amicizia fra quattro persone, eccellenze nel loro lavoro, ma sole nel privato. Dove il talento si dissolve, diventando fragilità».

Nel film ci sono rimandi al cinema di Pietro Germi, tra solitudine maschile e senso di sconfitta?

«Germi? È un regista enorme, il più importante nella commedia. Ma non so se posso competere con lui: lui è il maestro, io il discepolo. Ne ho appreso la lezione, certo. Ma guardo più al cinema di Pietrangeli, magari in modo involontario».

Com'è il suo personaggio?

«Nella mia intenzione, non volevo fare un omaggio ad Amici miei, film che ha tutta un'altra struttura... Il mio chirurgo ha problemi di solitudine, è sentimentalmente arido ed è un padre distratto, anche se poi riesce a recuperare il rapporto con la figlia lontana. Ho girato con attori molto concentrati: ci voleva equilibrio tra equivoci e colpi di scena. Il bello è che tra noi è nato un grande feeling: ci telefoniamo per sapere come stiamo. Cosa che non fa più nessuno».

Come ha lavorato sulla sceneggiatura?

«Ringrazio Veronesi, che mi ha suggerito il seme di quest'idea: lui è parte essenziale del lavoro. Dopo due film come protagonista, avevo bisogno d'un lavoro corale. D'ora in poi, condividerò i miei film con attori da lanciare. Mi piace stare in mezzo agli altri. La coralità sarà il mio futuro».

Brillanti nella professione, falliti nella vita privata: ne conosce?

«Quanti ne conosco! Fenomeni nella vita sociale, ma una vita privata che non corrisponde alla venerazione che hanno in pubblico. Se i miei personaggi, dopo 9 ore di sala operatoria, si frequentano e fanno scherzi assurdi, qualcosa non va...».

Scherzi che non dimentica?

«Ne ho scritto nel libro La casa sopra i portici. Uno scherzo cattivo ai miei genitori: erano andati all'Opera e, al ritorno a casa, hanno trovato tutto a soqquadro. Avevo buttato la passata Cirio per terra, a simulare il sangue... Mia madre svenne, ebbe la pressione alta per giorni. Poi, una volta telefonai a mio figlio, che aveva 8 anni, mentre giocava a pallone a Valle Aurelia, simulando d'essere il segretario di Francesco Totti: Ci piace come struscia la palla. Francesco ti vuol parlare. Tornato a casa, mio figlio mi raccontò tutto e gli dissi la verità: non m'ha parlato per un mese e mezzo. Non si fa a un bambino uno scherzo del genere: è stato troppo».

Il ruolo da primario è cucito su di lei?

«Veronesi, uno dei pochi amici che ho, l'aveva immaginato così. Lasciamo perdere la passione per la medicina, che mi rompe le scatole. D'altronde, ero pediatra in Manuale d'amore e medico che ammazza le mogli in Viaggi di nozze».

Chi le ha insegnato a tenere il bisturi in mano, tra l'altro in un vero ospedale?

«Avevo sul set un dottorino, che diceva come mettere i punti, o parlare con l'anestesista. Sono andato in sala operatoria, mascherato, e non dico che i chirurghi si divertano. Ma, a un certo punto, senti: Ma ieri, er rigore paa Roma nun c'era. E cominciano a parlare del Var, o si prendono in giro. È normale. Tutto il giorno ad aprire e chiudere. Se operano una colecisti, parlano di ristoranti».

Il cinema italiano è in ripresa?

«Ha ritrovato la fiducia del pubblico. C'è il 15-16% in più, rispetto a prima. Il bel risultato di Aldo, Giovanni e Giacomo dice che i film si fanno meglio.

Per contendere il pubblico alle serie tv, dobbiamo scrivere meglio».

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