Dura portarsi dietro l’esatta omonimia con una delle più celebri icone della storia del cinema, eppure oggi quando si nomina Steve McQueen sono in molti a domandarsi: «Chi, l’attore o il regista?». Il nuovo McQueen è un gigantesco londinese di colore, 43enne, con alle spalle una brillantissima carriera d’artista internazionale, passato dalle biennali di tutto il mondo e, nel 1999, insignito del Turner Prize (vinto tra gli altri da Gilbert & George e Damien Hirst). Ragionando per categorie il suo lavoro va inserito nell’ambito del video, anche se con caratteri del tutto particolari, perché fin dall’inizio McQueen dimostra una netta propensione narrativa, mescolandola a una cura maniacale delle immagini. Negli anni ’90 e nello scorso decennio gira diversi corto e mediometraggi dove le fonti di ispirazione vanno, a suo dire, da Jean Rouch a Jean Vigo, dal neorealismo italiano alle gag comiche di Buster Keaton. In mezzo ci mette l’interesse per la fotografia e la scultura, ma è evidente che il cinema resta il suo naturale punto d’approdo.
Un tempo, quando si parlava di film d’artista, venivano alla mente opere dal linguaggio astruso e difficile, inadatte a essere proiettate nel circuito normale a contatto con il giudizio del pubblico. Ora non è più così e se, da una parte, molto cinema d’autore e di genere trae ispirazione dall’arte contemporanea (Lynch e Cronenberg sono stati in tal senso dei precursori), dall’altra diversi pittori e fotografi, con alterni risultati, si sono fatti tentare dalla settima arte producendo pellicole di un certo valore. Il primo è stato Julian Schnabel che dopo aver esordito alla regia con Basquiat a metà anni ’90 ha continuato in questo filone biografico. Più recente è il caso dell’iraniana Shirin Neshat, che nel suo lavoro video e fotografico ha trattato la condizione femminile nel suo Paese e lo ha ripreso nel buon primo film Donne senza uomini.
Steve McQueen in appena due pellicole ha però dimostrato di far parte di quel ristretto gruppo di autori in grado di lasciare una traccia profonda nel cinema contemporaneo. Nell’autunno 2011 Shame è stato il caso a Venezia. Uno straordinario lavoro cucito addosso all’attore preferito, Michael Fassbender (che ha vinto la Coppa Volpi per l’interpretazione maschile) su una storia alquanto ossessiva di un uomo tormentato dalla paranoia del sesso e incapace di portare avanti rapporti normali, nella cui vita irrompe la sorella perduta e con manie suicide. Ciò che colpisce è il modo di filmare la città, New York, plumbea e astratta, e l’ostinata ricerca sul corpo dell’attore che non può non derivare dalla performance art o, comunque, da un ambito estraneo al cinema. Proprio quest’ultimo aspetto è insistito nel film d’esordio di McQueen, che la distribuzione italiana ha recuperato in queste settimane proprio dopo il grande successo di Shame. Hunger, uscito nel 2008, Caméra d’Or al Festival di Cannes, racconta il martirio di Bobby Sands nel carcere di Maze, dove morì dopo 66 giorni di sciopero della fame, interpretato anche qui da uno straordinario Fassbender capace di usare il corpo come macchina da emozione. Un lavoro coltissimo e ambizioso, lontano dall’agiografia del personaggio come nell’ultimo lavoro di Luc Besson, dove entrano immagini di cinema astratto caro a McQueen (le prime sequenze ricordano le pellicole manipolate a mano di Stan Brakhage), il pittoricismo caravaggesco e la lezione Body più estrema degli anni ’70. Si fida talmente del proprio talento il regista da osare un dialogo di oltre 15 minuti, tra Sand e il suo confessore, a camera fissa. Sta qui la differenza tra il cinema di consumo e quello d’artista nell’accezione contemporanea: prendere un linguaggio e stravolgerne le regole assodate senza per questo rifiutarne la sintassi. McQueen è sempre un palmo dentro la grammatica cinematografica anche se lo spettatore ne attende l’uscita.
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