Massimo Onofri è il maggiore tra gli studiosi dell'opera di Leonardo Sciascia, ma anche un critico militante che ha ragionato, sulle pagine dei quotidiani (come Il Sole 24Ore e Avvenire) e in diversi suoi libri come La ragione in contumacia. La critica militante ai tempi del fondamentalismo e Recensire. Istruzioni per l'uso (entrambi pubblicati da Donzelli nel 2007 e nel 2008) e, inoltre, in quel dittico «ilare e disperato» sulla cultura italiana che sono stati i volumi Sensi vietati e Nuovi sensi vietati (stampati da Gaffi nel 2006 e nel 2009) non solo sui libri che ha letto, ma pure sul modo in cui quegli stessi libri agiscono e vengono percepiti e discussi nella vita culturale di questo Paese. A partire da Passaggio in Sardegna (Giunti, 2015), il primo di un dittico chiusosi con Passaggio in Sicilia (Giunti, 2016), segna una svolta nel suo percorso. Anche la critica più analitica (quella letteraria, così come quella d'arte) si scioglie in una prosa che definirei un allegro malinconico. I suo viaggi nelle due maggiori isole italiane (in Sardegna Onofri insegna all'Università di Sassari Letteratura Italiana Contemporanea) sono, a ben vedere, la costruzione di un paesaggio, ovvero di una teoria. Una teoria, però, che sembrerebbe coincidere con un modo di vivere. Il suo ultimo lavoro, Benedetti Toscani. Pensieri in fumo (La Nave di Teseo), un libro di divagazioni, tra letture su cui si ragiona e pensieri più intimi mentre l'autore fuma il suo sigaro nel quotidiano spazio d'ozio che si concede, Onofri lo ha scritto a puntate sulla sua pagina Facebook. Qualche tempo fa, sulle pagine di Avvenire, ha scritto un articolo che difendeva il saggismo (a stralci) sui social network. Vedeva in questa pratica tutta contemporanea una forma nuova di critica e uno spazio in cui i critici letterari potessero essere seguiti da un numero di persone che i loro libri, generalmente, non raggiungono.
Ma i lettori dei post, sono poi interessati a cercare i loro libri, lì dove il critico approfondisce? Oppure si accontentano di un consiglio veloce e inevitabilmente poco argomentato?
«Le possibilità che i social aprono all'esercizio della critica sono enormi: democraticizzano, annullano le gerarchie di valore e di autorità di partenza tra gli scriventi. Ci avrà fatto caso, però, che le gerarchie, nell'agone della discussione, si ristabiliscono: ognuno di noi, dopo poco tempo, sa distinguere gli imbecilli, che smette di seguire, dagli scriventi di personalità dei quali non si perde un post, sicché torna a marcare differenze, a gerarchizzare. I miei ultimi libri li sto scrivendo su Facebook e trovo l'esperienza assai gratificante, soprattutto per l'interazione degli utenti che commentano, ragionano, consigliano, stigmatizzano, consentendoti di imparare o correggere. Quanto ai lettori, li dividerei in categorie: quelli che nemmeno leggono ma, in automatismo e chissà perché, mettono sempre un mi piace; quelli che leggono e che, per aver letto, confessano che non compreranno mai il libro che stai scrivendo; quelli che leggono e, per ciò stesso, compreranno con più entusiasmo, per esserne stati in qualche modo partecipi, gli stessi che, spesso, si abbandonano anche a un generoso passaparola; quelli che leggono tutto ma che non si palesano, che sono la maggior parte».
In lei, mi sembra, c'è una fiducia nella ragione di derivazione filosofica, e in particolar modo illuminista. È così?
«Senza dubbio sì, sono figlio dell'Età dei Lumi: più di Diderot e Casanova che di Voltaire, di Montesquieu e Hume che di Rousseau (che detesto politicamente, con la sua idolatria per la totalitaria Volontà Generale, ma che m'incanta nelle fantasticherie e nelle confessioni), più di Algarotti, Samuel Johnson e Baretti che di Beccaria e dei Verri, magari in vista della gioia di vivere di Stendhal. Amo i Lumi nel senso, però, d'un uomo dell'Ottocento che ha nostalgia del Settecento. Ecco perché, passando gli anni, l'invisibile ha preso un posto sempre più importante nella mia vita, sicché ora, tra le rovine, mi sento più prossimo al primo Ottocento di Leopardi e Chateaubriand: le sue Memorie d'Oltretomba, in questo momento della vita, sono il mio libro da comodino».
In un saggio dedicato a Luigi Baldacci (che più volte ha dichiarato essere un suo modello), contenuto in Altri italiani. Saggi sul Novecento (Gaffi, 2012), scriveva che la «critica militante si serve di tutti i metodi, non ipostatizzandone nessuno, ma avvalendosene con intelligenza all'uopo». Può approfondire?
«L'indimenticabile Baldacci sapeva utilizzare tutti i metodi, ma senza feticizzarli: tutto andava bene, purché servisse alla comprensione laica e critica di un testo e alla restituzione limpida degli argomenti. Non è l'oggetto letterario che deve servire un metodo, per confermarlo magari in se stesso a glorificare la scienza di cui sarebbe espressione: fatto che, curiosamente, accade non agli scienziati veri ma solo ai letterati che mitizzano la scienza, come certi linguisti e molti degli eredi della cultura strutturalista, tra i quali ha pagato dazio persino un personaggio del calibro di Francesco Orlando, per certi aspetti inventivo quanti altri mai, ma che ha generato allievi di una rigidità imbarazzante. Sono gli oggetti letterari, semmai, a imporre i propri metodi. Come si potrebbe studiare Tasso senza implicare almeno qualche nozione di critica psicologica? Come leggere Pratolini e Pasolini senza avere confidenza con la critica di vocazione ideologica? Si potrebbe studiare bene Gadda senza essere anche formalisticamente strumentati? Anche, però: non in maniera esclusiva o compulsiva. Come ha dimostrato uno studioso non certo formalista quale Roscioni, che ha scritto su Gadda le cose migliori, contando anche quelle di Contini, che, a differenza di Debenedetti e Longhi, non ho mai amato soverchiamente».
Per molti anni ha scritto sulle pagine di Diario e Avvenire di narrativa italiana. Non posso fare a meno di chiederle qual è lo stato di salute del romanzo italiano?
«Direi che la narrativa, oggi, pur non mancando qualche campione in attività (tra i venerabili Raffaele La Capria, che ormai ha però una vocazione più saggistica, tra i settantenni il mai pacificato Franco Cordelli, trai più giovani Rosa Matteucci, Sandra Petrignani, Sandro Veronesi, Edoardo Albinati, Antonio Franchini, Andrea Carraro, Luca Doninelli, Aurelio Picca, ma ce ne sono altri), sta assai peggio della poesia. E la poesia, a sua volta, sta peggio del saggio, oggi immaginativo e sorprendente come nessun altro genere: pensi, tra i maestri, a scrittori come Giorgio Ficara, Alfonso Berardinelli, Salvatore Silvano Nigro. Tra i saggisti lei non troverà mai scrittori imbarazzanti e kitsch come Erri De Luca e Salvatore Niffoi».
La scrittura di un romanzo, oggi, sembra garantire autorevolezza agli autori. Di contro, l'Italia ha una tradizione solida soprattutto nella poesia e nel racconto. Per quale ragione però gli scrittori si sentono lontani da queste forme espressive? Solo un monopolio editoriale o dietro questo fenomeno si nasconde altro?
«Lei crede? Io non la penso così sulla presunta egemonia del romanzo. Lasciamo stare i prodotti di mercato. Penso, infatti, che i migliori scrittori italiani di questi anni onorino una prosa spuria, mista, che non trova più credibile il romanzo puro e stabilisce nuovi patti col lettore. Del resto la nostra letteratura più grande è composta da prosatori, non da narratori (il romanzo, com'è noto, arriva tardi in Italia): Machiavelli e Guicciardini, Vico, l'Alfieri autobiografico, Leopardi e il poco romanzesco Manzoni. Senza dire del Novecento che, per me, è stato il secolo della critica: da Borgese a Serra e Cecchi, da Longhi a Debenedetti, da Garboli a Baldacci, per stare solo ai morti».
Nei suoi libri più recenti, mi sembra ci sia stata una svolta tutta narrativa che però include anche una particolare forma di critica. In passato ha parlato di «critica della vita». Cosa intende?
«Una svolta senz'altro, ma fino a un certo punto: prima avevo già pubblicato un libro dedicato a Pellizza da Volpedo e al suicidio del socialismo che già aveva risolto la critica letteraria e d'arte in critica tout court. Si tratta in fondo di capire la vita, e non solo i libri (che della vita fanno parte, del resto), con gli strumenti della critica letteraria e trasformare così il romanzo, non più plausibile, in racconto critico di sé e del mondo.
In questi libri, se vogliamo, io faccio dell'egotismo critico: faccio finta di parlare sempre di me, ma per parlare di tutto, di modo che l'io, giganteggiando, diventi come la trave nell'occhio e non lo si avverta più».
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