Un ragazzo di nome Pi e una tigre del Bengala che si chiama Richard Parker su una scialuppa per 227 giorni. Alla fine, paradossalmente, è tutto qui La vita di Pi, il corposo bestseller del franco-canadese Yann Martel che ha venduto 7 milioni di copie nel mondo (in Italia è pubblicato da Piemme) e che ora, dieci anni dopo che la Fox ne ha acquisiti i diritti, arriva al cinema il 20 dicembre come film di Natale adatto per tutta la famiglia. Diretto da Ang Lee, il regista taiwanese trapiantato negli States premio Oscar per La Tigre e il Dragone e per I segreti di Brokeback Mountain, dopo le defezioni di ben tre illustri colleghi (M. Night Shyamalan, Alfonso Cuarón, Jean-Pierre Jeunet), La vita di Pi è uscito negli Usa lo scorso fine settimana dove è stato ben accolto dalla critica (ipotecando così qualche premio Oscar) e dal pubblico che con 30 milioni di dollari d'incasso lo ha premiato con un quinto posto al botteghino giudicato ottimo visto che il film viene considerato «d'autore».
Naturalmente il film - una produzione da più di 100 milioni di dollari, girata in 3D - non è solo il racconto del rapporto del ragazzo con la tigre in cui l'uomo e l'animale riconoscono parte di se stessi nell'altro, ma anche della formazione di Pi in India dove vive all'interno dello zoo gestito dal padre che un bel giorno decide di traslocare, famiglia, animali e bagagli, in Canada. Nel viaggio la nave affonda e Pi si ritroverà su una scialuppa con una femmina di orango, una iena, una zebra ferita e la tigre Richard Parker..
C'è la lotta per la sopravvivenza, c'è la speranza, ma anche il racconto di giornate oceaniche magiche, tra realtà e sogno, che l'utilizzo del 3D rende ancora più straordinarie.
«Ho voluto sperimentare il 3D perché ho pensato che sarebbe stato il modo migliore per far immergere il pubblico nella storia. Le tre dimensioni aiutano a portare il protagonista in posti molto speciali. Poi certo sono stato aiutato da una squadra di professionisti per superare molte difficoltà».
Il protagonista da ragazzo è un attore indiano esordiente, Suraj Sharma.
«Quel ragazzo è un vero talento, oltretutto per gran parte del film lavora senza nessuno accanto per via degli effetti speciali. Ho fatto tantissimi provini, incontrando circa 3mila giovani. In lui ho visto subito un forte potenziale, quello di un ragazzo che non ha ancora accumulato molte esperienze. Cercavo uno sguardo innocente come il suo. Uno che non interpreta Pi, ma è Pi. In questo modo credo che il pubblico possa vivere più emozioni, penso ai giovani che come Pi sono in balia della natura e in cerca di se stessi».
Perché realizzare un film così complesso?
«Raccontare storie è il mio lavoro come regista. Lottare con gli aspetti tecnici e con le emozioni è la normalità per me. Ma qui è un po' diverso. Il libro è magico, ti lascia senza parole. Ed è stato difficile rendere il pensiero del romanzo, soprattutto nel finale, cercando al contempo di mantenere le emozioni. Poi grazie ai contributi tecnici sono riuscito a riflettere le caratteristiche dei personaggi e della loro indole lavorando sulla loro natura esterna e interna».
Nella sua carriera non c'è un film simile a un altro. Come spiega l'eterogeneità di titoli come Mangiare bere uomo donna e Hulk?
«La verità e che mi piacciono i cambiamenti. La lezione che ho imparato è che è importante vincere le proprie paure. Così cerco di realizzare opere molto diverse, scoprire cose che non conosco.
Prossimo film?
«Sono in attesa per il mio futuro. Sono un po' confuso. Devo trovare il senso di ciò che ho fatto e di quello che dovrò fare. Per ora sono in un limbo».
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