Alessandro D'Avenia, come sta? «Bene, a parte questa maledetta didattica a distanza... È difficile mantenere alta la tensione in un meccanismo che disincarna, e poi io non sopporto l'idea di educare senza corpo». Alessandro D'Avenia festeggia i dieci anni dall'esordio (bestseller) con Bianca come il latte, rossa come il sangue; ma, prima ancora che scrittore, D'Avenia è insegnante, professore di lettere in un liceo milanese. Anche il protagonista del suo nuovo romanzo, L'appello (Mondadori, pagg. 344, euro 20, già primo in classifica...), è un prof: si chiama Omero, è diventato cieco a causa di una rara malattia ma ha deciso di tornare dietro la cattedra come supplente di scienze (la sua passione) in una classe di alunni ufficialmente marchiati come quelli della «Quinta D, come disperati», per portarli alla maturità. In tutti i sensi.
A differenza della didattica online, nell'Appello il corpo c'è moltissimo: Omero è cieco e ricorre all'olfatto, all'udito e al tatto per conoscere i suoi alunni.
«Sì, il dato tattile è qualcosa di primordiale che abbiamo perso, ormai usiamo il tatto solo per scorrere le dita su uno schermo bidimensionale...».
Che cos'è il ritorno al corpo?
«È recuperare la carne del mondo, che si è persa, un po' perché tutto è immagine o proiezione di noi stessi, e un po' perché toccare la carne del mondo è fatica, ne senti le ferite, il peso, il dolore. Le cose mediate da uno schermo le scarichi facilmente; avere tatto, invece, significa prendersi cura».
Chi è Omero?
«Omero nasce da due fonti. La prima è un articolo, che lessi, su un prof che, nonostante la malattia che lo aveva portato alla cecità era andato avanti a insegnare e che raccontava la trasformazione del suo mestiere in qualcosa di più diretto, paradossalmente».
L'altra fonte?
«Cattedrale di Carver, in cui un vedente e un non vedente costruiscono insieme una cattedrale. Per me è l'idea del rapporto col lettore, con cui da dieci anni costruiamo insieme una comunità, pietra dopo pietra, così come i dieci ragazzi del romanzo che, insieme, danno vita a una grande orchestra. Perciò chiamo Omero maestro».
Come si crea l'orchestra?
«Ricevendo questi ragazzi, Omero apre lo spazio per la loro rinascita nell'aula, che è un grembo paterno».
Omero cambia l'appello: chiede ai ragazzi di dire il proprio nome e parlare di sé.
«Tutto il lessico della scuola ha a che fare con l'area semantica militare, e io la ribalto: è vero che la scuola è una chiamata alle armi, ma non per irregimentare, anzi, come nell'immagine di copertina, bisogna fare esplodere bombe di fiori, come la ginestra di Leopardi, che va a fiorire nel deserto».
Una rivoluzione?
«Una rivoluzione gentile, dei nomi e dei volti. Omero ascolta le voci degli studenti e posa le mani sui loro volti, tocca la geografia delle loro esistenze. L'appello è una chiamata ai ragazzi a venire fuori in questo mondo, che vuole solo controllare noi e i nostri desideri, a liberare la parte più autentica di loro stessi e a trovare la forza di essere ciò che sono. La fragilità è l'esperienza di tutti: quale classe non è difficile?».
Nel libro dà alcuni giudizi pesanti sulla scuola di oggi.
«Dopo vent'anni di insegnamento, qualcosina ho visto. E la ribellione di cui parlo è per difendere le vite, massacrate da anni, dei ragazzi e degli insegnanti. La scuola è stata trasformata, per volontà politica, in un parcheggio a ore, e gli insegnanti in parcheggiatori».
Non è troppo duro?
«Ma che cosa abbiamo chiesto alla scuola in questi anni? Di tenerci i figli a bada? E come può accadere una relazione creativa fra maestro e alunno, nel contesto di questa supplentite scandalosa, mentre si sono fatti soltanto due concorsi in diciotto anni?».
Che cosa bisognerebbe fare?
«È ora di svegliarsi. Bisogna sfruttare l'emergenza per capire che la malattia viene da lontano, e non sprecare l'occasione».
La malattia qual è?
«La malattia colpisce quello per cui la scuola esiste, la relazione fra maestro e discepolo: quando questa non è più messa al centro del sistema, la scuola è morta, non fa più crescere e, a parte qualche incontro con un insegnante che fa il suo mestiere, diventa parcheggio e noia. La conoscenza socratica, come cura di sé e del mondo, è l'atto fondante della scuola occidentale. Così la relazione è viva».
E invece?
«Invece la scuola è una guerra fra genitori, insegnanti e studenti: anziché un crescere insieme è un tutti contro tutti. Il sistema è così pieno di burocrazia e cose inutili e insopportabili che anche chi ha il sacro fuoco lo perde».
Dice anche che nella scuola domina una cultura fredda, che si ammanta di calore e bontà.
«È così, si finge calda, ma ha il cuore freddo, ed è ciò a cui educa. A livello del pensiero dominante ci sono moralismo e buonismo ma, alla prova dei fatti, c'è chi non conosce i nomi dei suoi alunni. E poi fai vedere i film per sensibilizzare...».
Scrive che «tutto deve cominciare a scuola».
«Omero dice che crede nella rivoluzione dei pianeti. Io non credo nelle rivoluzioni di sistema, credo in quelle fatte per le singole persone, per salvare uno, e poi uno, e poi un altro.
In questo sistema non c'è volontà di cambiare le cose, dato che conviene mantenere tutto così, eppure la speranza c'è, perché i ragazzi vogliono fare le cose, non aspettano altro... E se non lo facciamo noi a scuola, dove lo facciamo?».
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