"Il mio film made in Usa. La cosa più difficile? Tener testa a Sutherland"

Il regista presenta a Los Angeles "Ella&John" sulla ribellione di due anziani alle cure forzate

"Il mio film made in Usa. La cosa più difficile? Tener testa a Sutherland"

da Los Angeles

«Io quella scena di sesso non la volevo fare, ero nervosa, imbarazzata, mortificata, ma il mio grande vantaggio era di farla con Donald Sutherland. Sul copione era molto più brutale, poi è arrivato Donald. Ha detto, no così è sbagliata e l'ha trasformata in un momento dolce, di connessione fra due persone. Un importante momento d'amore». Helen Mirren descrive così la scena più difficile di Ella & John, The Leisure Seeker, il film di Paolo Virzì tratto dall'omonimo romanzo di Michael Zadoorian, in uscita il 18 gennaio in Italia, che racconta una ribellione: alla quotidianità, alla sofferenza, alle cure mediche ad ogni costo, di un'anziana coppia di coniugi.

Presentato a Venezia, il film ha visto la Mirren recente candidata ai Golden Globes. Ma Donald Sutherland non è certo da meno nella rappresentazione di un vecchio professore di letteratura la cui mente è obnubilata dall'Alzheimer. «Un viaggio come quello di Ella e John dice l'attore l'ho fatto negli anni Settanta, ero a Bologna, mi sono comprato una Ferrari, poi l'ho imbarcata a Genova fino a New York e da lì sono partito per un coast to coast, in Ferrari, sino a Los Angeles».

Che Donald Sutherland sia un bravo autista lo conferma anche Paolo Virzì che deve all'attore il fatto che The Leisure Seeker sia stato alla fine realizzato. «Il fatto è che abbiamo scritto il copione (Insieme a Francesca Archibugi e Francesco Piccolo) quasi per gioco, poi ho contattato Donald, che si è mostrato subito entusiasta, mi ha voluto incontrare a Miami. Mi è venuto a prendere all'aeroporto, con un ingombrante Suv. Voleva dimostrarmi che era bravo alla guida. Sul sedile posteriore c'erano trattati sull'Alzheimer. Sapeva già il copione a memoria. A quel punto mi sono detto E ora come faccio a dirgli che non sono sicuro di farlo questo film?».

Insomma, alla fine l'ha girato, il suo film americano.

«In realtà è un film italiano girato in America, mi sono portato la mia squadra, la fotografia di Luca Bigazzi, i costumi. Lo scenografo invece è americano, Richard A. Wright. È venuta fuori una troupe meticcia e uno stile mescolato. Ho lasciato improvvisare Helen e Donald, io mi sono quasi nascosto dietro di loro».

Insomma è stato facile.

«Le difficoltà sono arrivate girando un road movie per le strade d'America a bordo di un Suv degli anni Settanta, senza aria condizionata, con i freni che non funzionavano bene e con Donald che voleva assolutamente guidare lui, a 84 anni, mentre interpretava un malato di Alzheimer. Faceva un caldo che non si poteva respirare, ma noi niente, andavamo avanti con Donald in mezzo al traffico vero. E' un miracolo se siamo vivi».

E gli americani, sempre così organizzati, sono stati alle vostre improvvisazioni?

«All'inizio non è stato facile, ma nel giro di pochi giorni si sono abituati. E alla fine fra tutti noi c'era una sincera dose d'amore. Abbiamo fatto la festa di fine riprese più bella di sempre. Donald aveva un volo la mattina all'alba quindi ci ha lasciato presto, non prima però di averci steso con dodici casse di champagne: siamo stati sino all'alba a ridere e ubriacarci. Felici di essere vivi, di essere sopravvissuti».

La critica è stata talvolta severa. In particolare non è piaciuto agli americani, mentre gli inglesi lo hanno amato.

«Non le leggo più le critiche, sono diventato vulnerabile. Ho letto quelle di Venezia e sì, c'è stato questo attacco violento, soprattutto nei confronti di Helen e del suo accento del sud. Ma non ci ho badato più di tanto, ho pensato che non avessero altri strumenti per criticare il film. Il fatto è che ai festival si crea un microclima talvolta un po' pazzo».

Era l'estate del 2016 quando avete girato, in piena campagna presidenziale.

«Infatti ho inserito alcune scene. Non erano comprese nel copione ma sentivo che dovevo raccontarle. In particolare la scena in cui John, vecchio democratico, s'inserisce fra i sostenitori di Trump, e recita make America great again, completamente ignaro di cosa gli stia accadendo intorno, poi un'altra scena con i sondaggi che danno Hillary per vincente. Allora non sapevamo cosa sarebbe accaduto a novembre, ma sentivo che era qualcosa che andava raccontato».

L'avrebbe inserito anche se avesse vinto Hillary Clinton?

«Sì, non era mia intenzione fare una dichiarazione politica, a malapena mi sento di farlo in Italia con la politica italiana, figuriamoci se voglio spiegare la politica americana, ma da italiano sentivo che quell'atmosfera andava raccontata».

Un altro argomento che distingue l'Italia dall'America è il diverso modo di affrontare l'attualissimo tema delle molestie sessuali.

«Qui in America è preso molto sul serio, da noi c'è stata una reazione diversa, in particolare Asia Argento ha subito un attacco brutale da parte della stampa. Io voglio bene ad Asia e la stimo molto, come artista e come regista. E' coraggiosa, matta, ribelle. Da noi non esiste un Weinstein italiano per una ragione molto semplice, perché non esiste una persona così capace di influenzare una carriera. Forse Dino De Laurentiis negli anni Sessanta, ma adesso non c'è nessuno che possa determinare la carriera di un'attrice.

Abbiamo semmai fenomeni di goffaggine al cinema e preoccupanti abusi in tutti gli ambiti della società, negli ospedali, nelle scuole, nelle fabbriche. Se approfittiamo di questo momento per costruire una società in cui certi atteggiamenti vengano sradicati, sarà un regalo che faremo ai nostri figli».

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