Roma, quartiere popolare del Tufello, estate 2013. Cinquant'anni dopo esserne partito, pivello e sprovveduto, Gigi Proietti torna dov'è nato, ormai illustre e riverito. «Non volevo fare quello che si pavoneggia - ammicca - Ma la curiosità c'era». Passa dal prete di quando andava all'oratorio. Lo chiama. Quello scende... e gli appioppa uno sganassone. «Brutto puzzone! Nun te sei fatto più vivo!». «Sapevo che tornare è un po' soffrire - commenta Proietti -. Ma non pensavo fino a questo punto».
Insomma: Tutto sommato. Qualcosa mi ricordo - l'autobiografia con cui lei si celebra senza prendersi troppo sul serio (già nelle librerie per i tipi della Rizzoli) - inizia nel modo più adeguato. Con uno sganassone.
«Ma perché questa non è un'autobiografia: solo quattro chiacchiere in amicizia. Riordinare l'album dei ricordi è un lavoraccio: ci si dimentica sempre di qualcuno. E raccontarsi, poi, è difficilissimo. Di sicuro ho trascurato molti dettagli. Ma le cose importanti le ho tutte qui. Tutto sommato, qualcosa mi ricordo».
Grande parte del libro è dedicata a quando Gigi era ancora solo Luigi. Alla sua giovinezza, insomma.
«Perché penso che si parli sempre della guerra o del boom, mai degli anni di mezzo, quelli in cui sono stato giovane io, e che furono un periodo fervido. Ho voluto raccontarlo alle mie figlie. Come facevo nel mio laboratorio teatrale, dove più che a recitare (la recitazione non s'insegna: s'impara) trasmettevo l'etica della professione. E quindi del vivere. Perché se fare l'attore è un mestiere, lo è anche vivere».
Gli incontri più importanti? Il momento più critico?
«L'amicizia con Fellini, che ancora mi onora. Quella con Gassman, che ancora prosegue: per me Vittorio non è morto, sto sempre per telefonargli. Ma non frequento salotti. Quanto al momento critico fu la sciagurata gaffe che feci con un osannato regista teatrale (no: nomi non ne faccio. I nomi li fanno solo i pentiti). Gli dissi Quella regia fa schifo. Quella regia è mia, replicò lui».
Pochi la conoscono come doppiatore: ma la voce del primo Rocky, quello di «Adrianaaaaa!», è sua.
«Doppiai Richard Burton in Chi ha paura di Virginia Woolf?, e mi aprì le porte del mestiere. Ma l'episodio memorabile è legato ad un film di serie B, un falso James Bond, che cercavamo di migliorare colle nostre voci. Io avevo una scena con un cinese; "Lui meglio se si doppia da solo - disse la direttrice del doppiaggio -. sarà più vero". E il cinese recitò: "C'avete da dicce tutto quer cavolo che sapete!". Romanesco puro».
Come imparò il mestiere?
«Passavo le giornate ad ascoltare i dischi di Charlie Parker e Dizzy Gillespie: volevo imparare a prendere i fiati come loro. Ero pazzo. Però funzionava. Recitavo davanti allo specchio respirando sempre meno, finché il cuore non mi scoppiava. Passava mio padre, e scuoteva la testa: Io 'sto fijo mio nun lo capisco».
Perché? I suoi l'hanno ostacolata?
«Ma no, poveretti. Assistevano increduli. Una sera papà mi beccò che rientravo dalle prove, e sbottò: Se po' sape' che stai a fa'? Sto a fa' teatro. Ma che teatro stai a fa'? Che titolo c'ha?. Esitante riferii il titolo: Riflessi di conoscenza. Che? Conoscenza de che? Ma nun c'avete da studia'?. Mia madre venne a vedere A me gli occhi, please, ed entrò in camerino mentre tutti gridavano Meraviglioso!, Magnifico!, Stupendo!. Io le chiesi: T'è piaciuto, ma'?. E lei: Abbastanza. Ah: la saggezza contadina!»
Racconta anche i giorni tristi? La sua clamorosa «cacciata» dal Teatro Brancaccio, ad esempio.
«Un giorno apro il giornale e leggo: Cambio al Brancaccio: Maurizio Costanzo nuovo direttore artistico. L'ho saputo così. Conoscevo Maurizio da anni. Scoppiarono polemiche che mai vorrei riaccendere: non provo animosità. Però fu molto dura. Da allora lavoro al Globe Theatre, dove facciamo spettacoli sempre più riusciti.
Generalmente, quando si scrive un'autobiografia, è perché ci si sente sazi.
«Per questo non volevo scriverla. Perché c'ho ancora una fame blu!»
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