"Il mio trampolino di lancio? Richard Burton"

Dai primi passi facendo il doppiatore all'incontro con Fellini e Gassman, l'attore si racconta in un'autobiografia

"Il mio trampolino di lancio? Richard Burton"

Roma, quartiere popolare del Tufello, estate 2013. Cinquant'anni dopo esserne partito, pivello e sprovveduto, Gigi Proietti torna dov'è nato, ormai illustre e riverito. «Non volevo fare quello che si pavoneggia - ammicca - Ma la curiosità c'era». Passa dal prete di quando andava all'oratorio. Lo chiama. Quello scende... e gli appioppa uno sganassone. «Brutto puzzone! Nun te sei fatto più vivo!». «Sapevo che tornare è un po' soffrire - commenta Proietti -. Ma non pensavo fino a questo punto».

Insomma: Tutto sommato. Qualcosa mi ricordo - l'autobiografia con cui lei si celebra senza prendersi troppo sul serio (già nelle librerie per i tipi della Rizzoli) - inizia nel modo più adeguato. Con uno sganassone.
«Ma perché questa non è un'autobiografia: solo quattro chiacchiere in amicizia. Riordinare l'album dei ricordi è un lavoraccio: ci si dimentica sempre di qualcuno. E raccontarsi, poi, è difficilissimo. Di sicuro ho trascurato molti dettagli. Ma le cose importanti le ho tutte qui. Tutto sommato, qualcosa mi ricordo».

Grande parte del libro è dedicata a quando Gigi era ancora solo Luigi. Alla sua giovinezza, insomma.
«Perché penso che si parli sempre della guerra o del boom, mai degli anni di mezzo, quelli in cui sono stato giovane io, e che furono un periodo fervido. Ho voluto raccontarlo alle mie figlie. Come facevo nel mio laboratorio teatrale, dove più che a recitare (la recitazione non s'insegna: s'impara) trasmettevo l'etica della professione. E quindi del vivere. Perché se fare l'attore è un mestiere, lo è anche vivere».

Gli incontri più importanti? Il momento più critico?
«L'amicizia con Fellini, che ancora mi onora. Quella con Gassman, che ancora prosegue: per me Vittorio non è morto, sto sempre per telefonargli. Ma non frequento salotti. Quanto al momento critico fu la sciagurata gaffe che feci con un osannato regista teatrale (no: nomi non ne faccio. I nomi li fanno solo i pentiti). Gli dissi “Quella regia fa schifo“. “Quella regia è mia“, replicò lui».

Pochi la conoscono come doppiatore: ma la voce del primo Rocky, quello di «Adrianaaaaa!», è sua.
«Doppiai Richard Burton in Chi ha paura di Virginia Woolf?, e mi aprì le porte del mestiere. Ma l'episodio memorabile è legato ad un film di serie B, un falso James Bond, che cercavamo di migliorare colle nostre voci. Io avevo una scena con un cinese; "Lui meglio se si doppia da solo - disse la direttrice del doppiaggio -. sarà più vero". E il cinese recitò: "C'avete da dicce tutto quer cavolo che sapete!". Romanesco puro».

Come imparò il mestiere?
«Passavo le giornate ad ascoltare i dischi di Charlie Parker e Dizzy Gillespie: volevo imparare a prendere i fiati come loro. Ero pazzo. Però funzionava. Recitavo davanti allo specchio respirando sempre meno, finché il cuore non mi scoppiava. Passava mio padre, e scuoteva la testa: “Io 'sto fijo mio nun lo capisco“».

Perché? I suoi l'hanno ostacolata?
«Ma no, poveretti. Assistevano increduli. Una sera papà mi beccò che rientravo dalle prove, e sbottò: “Se po' sape' che stai a fa'?“ “Sto a fa' teatro“. “Ma che teatro stai a fa'? Che titolo c'ha?“. Esitante riferii il titolo: “Riflessi di conoscenza“. “Che? Conoscenza de che? Ma nun c'avete da studia'?“. Mia madre venne a vedere A me gli occhi, please, ed entrò in camerino mentre tutti gridavano “Meraviglioso!“, “Magnifico!“, “Stupendo!“. Io le chiesi: “T'è piaciuto, ma'?“. E lei: “Abbastanza“. Ah: la saggezza contadina!»

Racconta anche i giorni tristi? La sua clamorosa «cacciata» dal Teatro Brancaccio, ad esempio.
«Un giorno apro il giornale e leggo: “Cambio al Brancaccio: Maurizio Costanzo nuovo direttore artistico“. L'ho saputo così. Conoscevo Maurizio da anni. Scoppiarono polemiche che mai vorrei riaccendere: non provo animosità. Però fu molto dura. Da allora lavoro al Globe Theatre, dove facciamo spettacoli sempre più riusciti.

Ma se fossi costretto ad andarmene anche dal Globe, stavolta l'occuperei».

Generalmente, quando si scrive un'autobiografia, è perché ci si sente sazi.
«Per questo non volevo scriverla. Perché c'ho ancora una fame blu!»

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