Che tenerezza, Monaldo Leopardi. Ce l'hanno ancora tutti con lui: perché tutti sono amici di Giacomo e dunque tutti nemici del padre-cerbero, del padre-padrone, del padre arcigno e retrogrado. Lo disprezza perfino il prefatore di questo libro pubblicato da Oaks, Autobiografia e Dialoghetti (pagg. 263, euro 20), che raccogliendo inoltre il Viaggio di Pulcinella può quasi considerarsi l'opera omnia monaldiana: la mancanza degli Annali recanatesi (storia del «natio borgo selvaggio» dalle origini al 1800) non toglierà il sonno a nessuno, immagino. «Monaldo non è più nostro contemporaneo, a differenza di Giacomo, contemporaneo di ogni futuro», scrive impietoso Alessandro Zaccuri. Povero Monaldo, povero in senso lato, per il perenne confronto con l'irraggiungibile genio frutto dei suoi lombi, e povero in senso stretto, sebbene conte e grande proprietario immobiliare. Chi è stato a Recanati e ha visto Palazzo Leopardi si sarà fatto l'idea di una famiglia prospera e potente ma è vero il detto «denari e santità metà della metà».
Nell'Autobiografia si legge spesso di soldi o meglio della loro mancanza. Liquidità e proprietà non sempre vanno a braccetto, come sperimentano molti odierni proprietari di immobili che non generano redditi e che però necessitano di costose manutenzioni e periodici versamenti Imu, Tari, Tasi. La vita di Monaldo, nobile poco liquido, appare un rosario di pesanti indifferibili spese: vecchi debiti da onorare, sorelle da dotare, famigliari (numerosi) da mantenere, famigli da sfamare, un continuo tormento di «difficoltà monetarie» e «angustie economiche le più atroci». Una volta fu costretto a vendere i gioielli di famiglia, ovviamente perdendoci. Sì, quando avanzava qualche baiocco (moneta pontificia) correva a comperare dei libri, allora un lusso per pochi: piccolo sperpero provvidenziale visto che senza la ben fornita biblioteca, ancor oggi visibile a Palazzo Leopardi, Giacomo sarebbe probabilmente rimasto il figlio gobbo di un signorotto di paese. Sul capo di Monaldo è piovuta anche l'accusa di taccagneria perché non esaudiva se non molto parzialmente le filiali richieste di denaro: a sua discolpa il fatto che in casa, lo abbiamo visto, di soldi ne circolavano pochi, e che lui stesso era tenuto a stecchetto dalla moglie marchesa, padrona dei cordoni della borsa e vero cerbero di famiglia.
Chiaramente la colpa più grave di Monaldo è politica: non era un giacobino. Nemmeno lontanamente, nemmeno per finta. Se fosse stato un collaborazionista, se nel 1796 avesse simpatizzato per gli invasori francesi ho il sospetto che le storie letterarie lo avrebbero trattato meglio. Ma anziché scrivere inni entusiasti, come fecero il giovane Ugo Foscolo e il meno giovane e dunque più ripugnante Vincenzo Monti, si rifiutò perfino di affacciarsi dalla finestra sotto la quale passava Napoleone a cavallo, «giudicando non doversi a quel tristo l'onore che un galantuomo si alzasse per vederlo». Si mise allora a covare i Dialoghetti, definiti da Zaccuri «monumento portatile del conservatorismo nostrano». Nelle pagine di quest'uomo tutto d'un pezzo, così raro in un paese di voltagabbana e in una società letteraria abbonata al servo encomio, ho sentito qualcosa di Prezzolini. Tra i Dialoghetti e il Codice della vita italiana corre quasi un secolo eppure un filo li collega: Monaldo, oltre che padre di Giacomo, nonno di Prezzolini? «Il prestigio della novità non mi ha sedotto, le lusinghe della rivoluzione mi hanno lasciato inconcusso», scrive nell'Autobiografia.
Se la Società degli Apoti esistesse davvero dovrebbe commissionare un busto di Leopardi padre per adornare la sala riunioni e mostrare un alto esempio agli associati. Lo stile monaldiano ovviamente è datato e così parecchi contenuti che hanno ormai solo valore storico, documentario: i precettori si sono estinti, nessuna tredicenne viene più costretta a farsi monaca, le figlie femmine danno forse più pensieri di un tempo ma non quello della dote e, venendo alla politica, gli invasori anziché scendere dalle Alpi adesso salgono dal Mediterraneo. Invece alcuni temi e polemiche sono ancora con noi, confutando l'accusa di totale anacronismo mossa dalla prefazione.
Penso allo studio del latino (si cominciava a dubitare della sua utilità) e penso all'importanza dell'abbigliamento (si cominciava a vestirsi tutti allo stesso modo: «Questi abiti costano due baiocchi, e tutti hanno due baiocchi, e tutti li due baiocchi sono compagni sicché tutto il mondo è uguale»). Monaldo Leopardi credeva che l'abito facesse il monaco: «L'abito sodo e signorile ha riscosso sempre e riscuoterà sempre il rispetto del volgo». Pure queste, come dimostra il guardaroba di Luigi Di Maio, sono parole attuali.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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