«Devi tornare alla nera foresta, al fiume profondo, alla valle profonda, per ricominciare la tua vita tormentata e morire». Nel 1953 era da poco giunto a Tokyo, il diciottenne Oe Kenzaburo, quando lesse questi versi di William Blake. Nato a Uchiro, nello Shikoku, si era trasferito nella capitale per studiare all'università le letterature straniere, soprattutto quelle europee. Orgogliosamente provinciale, il giovane giapponese voleva aprirsi al mondo senza confini della cultura, ma senza tagliare il cordone ombelicale che lo legava all'infanzia e all'adolescenza. Quindi prese quelle parole come un monito, e le trasformò in una promessa a se stesso.
Oggi, non distante dalla tappa degli 85 anni, Oe Kenzaburo continua a mantenere quella promessa che in Blake suona dantesca, proiettata verso una resa dei conti che pone la fine e il nuovo inizio sullo stesso piano prospettico. Lo fa nonostante nel suo ultimo romanzo, uscito nel 2013, la ferita dello tsunami e del terremoto di due anni prima che devastarono la regione del Tohoku lo abbia molto indebolito, facendo ripiegare su se stesso sia lui, sia il suo alter ego Choko Kogito, protagonista di molti suoi libri.
Anche all'inizio di La foresta d'acqua, il penultimo libro di Oe, datato 2009 e da poco uscito in Italia da Garzanti (pagg. 480, euro 25, traduzione di Gianluca Coci) troviamo un settantaquattrenne Kogito - soprannome derivato dal cogito di Descartes, un omaggio all'amata Francia - in preda alla depressione. Se ne sta chiuso in casa, a Tokyo, a leggiucchiare, oziando e macerandosi nel senso di colpa per l'assenza di ispirazione che lo fa sentire inutile in quanto scrittore che non scrive, e senza quasi comunicare con moglie e figlio. Unico diversivo, la passeggiata mattutina. Un giorno, sul solito percorso Kogito s'imbatte in Unaiko, una bella trentenne che fa jogging. Sarà quell'incontro - non casuale, come scopriremo presto - a dargli la spinta decisiva per «tornare alla nera foresta, al fiume profondo, alla valle profonda» delle sue origini, dopo che la sorella Asa gli ha parlato al telefono della «valigia di pelle rossa». Sono passati dieci anni dalla morte di nostra madre, spiega Asa, quindi ora possiamo aprire la «valigia di pelle rossa», quella che portò con sé nostro padre il giorno in cui annegò nel fiume e che poi ritrovammo. E aggiunge: sono in contatto con un gruppo teatrale che vuole portare sul palcoscenico la tua opera omnia e che per questo si è trasferito dalle nostre parti - nello Shikoku, ovviamente - quindi potresti approfittarne per venire giù, così mentre tu rimetti mano al «romanzo dell'annegamento» che avevi appena abbozzato, loro potranno conoscerti...
Ed ecco che si alza il sipario sulla grande recita di La foresta d'acqua, indirizzata sui binari paralleli della (ri)creazione di Kogito e della recita collettiva dei ragazzi del Caveman Group, di cui Unaiko è la primadonna. Il lettore avvertito, ancor prima che inizi lo spettacolo ha compreso la centralità della «valigia di pelle rossa». Che cosa conteneva, la notte in cui, sul finire della Seconda guerra mondiale, il cinquantenne padre di Kogito la portò con sé in un ultimo viaggio a metà strada tra fuga e junshi, cioè il «suicidio per fedeltà»? L'indagine di Kogito, scandita dal persistente sogno degli ultimi istanti vissuti accanto al padre, nel fiume in piena, prima del drammatico epilogo, è la colonna vertebrale del romanzo. Mentre i ragazzi si entusiasmano per l'opera di Kogito e per la sua non molto fattiva collaborazione, lui, il venerato e stanco maestro, ha altro per la testa. Perché capisce che sua madre ha provveduto a censurare il contenuto della valigia, e apprende da un vecchio seguace di suo padre che ad alleggerire la valigia sono stati anche, poche ore prima della notte fatale, i componenti di un gruppo ultranazionalista di cui il padre era membro, seppure con poca convinzione.
Nella «Casa nella foresta» dov'era tornato con qualche speranza insieme al figlio Akari, affetto da una grave malformazione cerebrale e il quale comunica quasi soltanto con la musica (proprio come il figlio di Oe, di nome Hikari) Kogito sta peggio che a Tokyo, dov'è rimasta la moglie Chikashi, a combattere contro un tumore: il presente, tranne la seduttiva Unaiko, lo disturba e il passato che tanto vorrebbe conoscere nei dettagli pare essersi dissolto... Eppure un indizio è rimasto, in uno dei libri contenuti nella valigia. Si tratta di un volume di Il ramo d'oro di James Frazer, il mastodontico studio sulle antiche culture la cui stesura definitiva è del 1915, in cui si parla del «Dio morente» in un rito ancestrale praticato sui Colli Albani: il re, vecchio e indebolito, è sfidato a duello da alcuni giovani pretendenti al potere, fino a che uno di questi lo uccide e gli subentra.
Così, letterariamente, Kogito torna a essere uno scrittore che intesse trame, perché collega il brano di Frazer a una figura misteriosa, «il professore di Kochi», la fonte alla quale si abbeverava suo padre. È stato lui, pensa Kogito, «il professore di Kochi», a dargli il libro impartendogli la lezione che papà non ha avuto la forza di mettere in pratica, preferendo darsi la morte, rinunciando all'insurrezione. Perché il re dei Colli Albani rappresenta l'imperatore del Giappone, Hirohito, il sovrano che ha condotto il Paese alla sconfitta contro gli Stati Uniti, e che dev'essere eliminato.
Così viene dispiegandosi nel tempo il popoloso dramma, potrebbe dire Borges come al termine di Tema del traditore e dell'eroe, in cui l'affetto di un figlio (e di uno scrittore, anzi di due) vale l'assoluzione a un padre.
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