Cultura e Spettacoli

Noi, illusi di essere dèi saremo solo cloni senza più l'ombelico

Michel Houellebecq delinea il nostro futuro: ci resta soltanto una "Consolazione tecnica"

Noi, illusi di essere dèi saremo solo cloni senza più l'ombelico

Io non mi piaccio. Provo per me solo un briciolo di simpatia, e ancor meno stima; di più, la mia persona non m'interessa molto. Conosco da tempo le mie principali caratteristiche, e ho finito per provarne disgusto. Da adolescente, ancora giovane uomo, parlavo di me, pensavo a me, ero come ricolmo della mia stessa persona; ora non è più così. Mi sono estraniato dai miei pensieri, e la sola prospettiva di dover raccontare un episodio personale mi fa sprofondare in una noia vicina alla catalessi. Qualora vi sia assolutamente obbligato, mento.

Eppure, paradossalmente, non mi sono mai pentito di essermi riprodotto. Si può anche dire che amo mio figlio, e che lo amo ancora di più ogni volta che riconosco in lui una traccia dei miei medesimi difetti. Li vedo manifestarsi nel corso del tempo con un implacabile determinismo, e ne sono felice. Godo senza il minimo pudore nel vedere ripetersi, e di conseguenza perpetuarsi, caratteristiche personali che non hanno assolutamente nulla di apprezzabile, caratteristiche che risultano abbastanza spregevoli; e che, in realtà, non hanno altro merito se non quello di essere le mie. Peraltro, non sono esattamente le mie; di alcune mi rendo conto che sono ricalcate tali e quali sulla personalità di mio padre, quello stronzo fatto e finito; cosa che, stranamente, non toglie nulla alla mia gioia. La quale è qualcosa di più dell'egoismo; qualcosa di più profondo e indiscutibile. Come un volume è qualcosa di più della sua proiezione su una superficie piana; o come un corpo vivente è qualcosa di più della sua ombra.

Ciò che al contrario mi rattrista, in mio figlio, è il fatto di vederlo mettere in risalto (influsso della madre? cambiamento dei tempi? puro individualismo?) i tratti di una personalità autonoma, nella quale io non mi riconosco affatto, che mi rimane estranea. Lungi dal meravigliarmene, mi rendo conto che lascerò soltanto un'immagine incompleta e indebolita di me stesso; nel giro di pochi secondi, avverto più nettamente l'odore della morte. E posso confermarlo: la morte puzza.

La filosofia occidentale favorisce poco la manifestazione di sentimenti del genere; sono sentimenti che non lasciano il minimo spazio al progresso, alla libertà, all'individuazione, al divenire; che s'indirizzano unicamente all'eterna, imbecille ripetizione dell'uguale. Per giunta, non hanno nulla di originale; sono condivisi dalla quasi totalità dell'umanità, nonché dalla maggior parte del regno animale; non sono nient'altro che la memoria sempre attiva di un istinto biologico dominante. La filosofia occidentale è un lento, paziente e crudele dispositivo di ammaestramento volto a convincerci di alcune idee del tutto false. La prima è che dobbiamo rispettare gli altri perché sono differenti da noi; la seconda è che abbiamo qualcosa da guadagnare dalla morte.

Oggi, per effetto della tecnologia occidentale, questa vernice di convenienze si sta rapidamente scrostando. Naturalmente, io mi farò clonare appena possibile; naturalmente, tutti si faranno clonare appena possibile. Andrò alle Bahamas, in Nuova Zelanda o alle Isole Cayman; pagherò il prezzo necessario (né gli imperativi etici né gli imperativi finanziari hanno mai pesato molto, in confronto a quelli della riproduzione). Avrò probabilmente due o tre cloni, come si hanno due o tre figli; tra le cui nascite rispetterò un adeguato intervallo (né troppo vicini né troppo lontani); uomo ormai maturo, mi comporterò da padre responsabile. Assicurerò ai miei cloni una buona educazione; e alla fine morirò. Morirò senza piacere, poiché non desidero morire. Tuttavia, fino a prova contraria, vi sono obbligato. Tramite i miei cloni, avrò raggiunto una certa forma di sopravvivenza per nulla sufficiente, ma comunque superiore a quella che mi avrebbero garantito dei figli. È il massimo che la tecnologia occidentale possa offrirmi, sino a oggi.

Nel momento in cui scrivo queste righe, mi è impossibile prevedere se i miei cloni nasceranno fuori dal grembo della madre. Ciò che al profano sembra tecnicamente semplice (gli scambi nutritivi attraverso la placenta comportano a priori un minor mistero rispetto all'atto della fecondazione) si rivela in realtà l'elemento più difficile da riprodurre. Nel caso in cui la tecnica risultasse abbastanza progredita, i miei futuri figli, i miei cloni, vivranno l'inizio della loro esistenza dentro un barattolo di vetro; e questo mi rattrista un po'. Mi piace la fica delle donne, sono felice quando penetro nel loro ventre, nella morbidezza elastica della loro vagina. Capisco le ragioni della sicurezza, gli imperativi tecnici; capisco le ragioni che condurranno progressivamente a una gestazione in vitro; mi concedo, in merito, solo una leggera manifestazione di nostalgia. I miei piccoli cari, concepiti così lontano da lei, sentiranno ancora il gusto della fica? Lo spero per loro, lo spero con tutto il cuore. Esistono molte gioie a questo mondo, ma pochi piaceri e pochissimi che non procurino alcun male. Fine della parentesi umanista.

Se devono svilupparsi dentro un barattolo, i miei cloni nasceranno naturalmente senza ombelico. Non so chi abbia usato per la prima volta in senso spregiativo l'espressione littérature nombriliste, ma so che questo banale cliché non mi è mai piaciuto. Quale sarebbe l'interesse di una letteratura che pretendesse di parlare dell'umanità escludendo ogni considerazione personale? Eh? Gli esseri umani sono molto più simili tra loro di quanto si pensi, nelle loro comiche pretese di essere dei se stessi singoli; è molto più facile pensare di raggiungere l'universale parlando di sé. E qui scatta un secondo paradosso: parlare di sé è un'attività fastidiosa, persino ripugnante; scrivere di sé è, in letteratura, la sola cosa che valga, a tal punto che classicamente e correttamente si commisura il valore dei libri alla capacità di coinvolgimento personale del loro autore. È grottesco, se si vuole, è anche di un'impudenza folle, ma è così.

Scrivendo queste righe, sto effettivamente, e concretamente, contemplando il mio ombelico. Di solito ci penso di rado, ed è molto meglio. Questa rientranza della carne reca in sé, con tutta evidenza, il segno di un taglio, di un nodo effettuato in modo frettoloso; è il ricordo di un colpo di forbici attraverso il quale sono stato, senza indugio, proiettato nel mondo; ed esortato a sbrigarmela da solo. E, proprio come me, nemmeno voi sfuggirete a questo ricordo; da vecchi, anche molto vecchi, conserverete intatta in mezzo al ventre la traccia di quel taglio. Da quel buco mal chiuso, i vostri organi più interni potranno in ogni momento fuoriuscire e andare a marcire nell'atmosfera. Potrete in ogni momento svuotarvi delle vostre budella, sotto il sole; e crepare come un pesce finito da un colpo di stivale in piena spina dorsale. Non sarete né il primo né il più illustre. Ricordate le parole del poeta: come un pesce morto / finito a pedate.

Farete presto la stessa fine, figli senza importanza. Sarete come dèi e non sarà affatto sufficiente. I vostri cloni non avranno ombelico, ma avranno una littérature nombriliste. Anche voi sarete nombrilistes; sarete mortali. Il vostro ombelico si coprirà di grasso, e sarà detto tutto. Dopodiché vi si getterà della terra in faccia.

Traduzione di Sergio Arecco

© 2022 La nave di Teseo editore, Milano

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