La noia di Moravia nel Parlamento europeo degli indifferenti

Simonetta Sciandivasci

«Il parlamento di Strasburgo è nordico. Nordico come Thomas Mann, André Gide, T.S. Eliot. Dico nordico ma dovrei dire borghese, di una borghesia culturalmente conservatrice». Era il 2 agosto del 1984 e Alberto Moravia scriveva il suo primo diario europeo per il Corriere della Sera: era stato eletto da poco a Strasburgo. Berlinguer gli aveva chiesto di candidarsi e lui aveva accettato a condizione di potersi impegnare in una battaglia precisa, quella per il disarmo atomico.

Rileggere il Diario europeo (la raccolta dei reportage dello scrittore da Strasburgo, edita da Bompiani nel 2007, con un'introduzione di Enzo Siciliano) non serve ad accreditare Moravia tra i vati del canto del cigno dell'Unione, ma a capire che molto di ciò in cui oggi la vediamo incistarsi, paradossalmente, era la calce delle sue origini. «Viene da immaginare che i posteri penseranno che gli europei alla fine del XX secolo volessero la moneta unica e gli scambi culturali, ma non una nazione nuova»: Moravia lo pensava guardando il Parlamento di Strasburgo che, nuovo di zecca, lo colpì per la sua «scenografica eleganza». I corridoi dell'edificio che «serpeggiano anziché andare dritti», le sedute parlamentari in cui «si chiacchiera molto e in maniera molto complicata di questioni che potrebbero essere risolte in poco tempo e con più semplicità» lo convinsero che il parlamento era una convenzione «formale e innocua» (non potendo, il parlamento europeo, legiferare), cui i politici aderivano fingendo di farsi distogliere dal solo, vero dato concreto: il potere rimaneva nei singoli Paesi e nei partiti dei singoli Paesi, cioè in quelle realtà che Strasburgo era nato per sintetizzare e, di fatto, superare. Moravia non conosceva lo scandalo (nei Comizi d'amore di Pasolini disse che scandalizza solo quello che non si capisce), quindi senza alcun moralismo scrisse che, poiché i politici ambiscono ontologicamente al potere, non ci si poteva aspettare che si spendessero per un istituto che non gliene offrisse nessuno, come era e come è quello di Strasburgo.

Nel 1987 era ormai un parlamentare navigato e a un giornalista che gli chiese cosa pensasse di quel parlamento - dove continuava a ribadire di essere «uno scrittore impegnato nella questione nucleare, che è la questione centrale del romanzo, almeno del mio» -, Moravia rispose che, come tutte le istituzioni, poteva sembrare inutile, ma pure che le istituzioni andrebbero sempre valutate nei momenti di emergenza. Soprattutto, disse che «non è il fatto di non poter legiferare a rendere il parlamento europeo impotente, bensì l'Europa stessa, divisa, timida, materialista che esso rappresenta». Ancora nell'88 Moravia scriveva che l'Europa aveva due volti: quello dei particolarismi feudali, monarchici e nazionali e quello dell'universalismo culturale. Due volti montati su un corpo eternamente in conflitto e in drammatico rapporto dialettico tra loro: «c'era più universalismo e spirito europeo due secoli fa di oggi».

Moravia fu un convinto sostenitore dell'Unione europea e ribadì spesso, nei suoi diari, di esserlo in quanto intellettuale (distinguersi dai politici non gli serviva per lucidarsi, ma per chiarire che la diversità di letture di un'azione politica, prima di avere a che fare con la questione morale, ha a che fare con i ruoli). Nonostante la vedesse sbrindellata e abborracciata, aggrappata a un'egemonia economica destinata a crollare essendo apolitica e poco capace di mostrarsi all'altezza della grande sfida di non morire schiacciata dalle tante diversità che, nel passato, ne avevano costruito la gloria, e nonostante un «razzismo diverso da quello americano, che è un fatto privato» sembrava tornasse ad avvamparla, l'Europa era per Moravia la sola saldatura alla fiducia nel futuro. «Dalla sua divisione drammatica, l'Europa dovrà ricavare un nuovo spirito, una nuova risposta universale e creativa alle domande del mondo moderno»: per lui il futuro sarebbe stato più facilmente europeo che americano.

Era un augurio, ma pure l'indicazione di una strada da intraprendere «con uno spirito di libertà e di creatività intransigente ed estremo». Solo creatività e intransigenza potranno trovare il modo di far convivere la Heimat nordica e la koinè mediterranea: aspettare che a farlo sia Strasburgo è operazione vana.

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