Il nuovo museo Pecci? Bello. Anche se non è la fine del mondo

Luca Beatrice

da Prato

Finalmente a Prato ha riaperto a metà ottobre il «Centro Pecci» che fin dagli anni '80 fu il secondo museo italiano, dopo il Castello di Rivoli, pensato specificamente per l'arte contemporanea. Costruito per volere della nota famiglia di industriali per ricordare il giovane erede Luigi scomparso anzitempo, su progetto dell'architetto Italo Gamberini in una zona periferica vicino all'autostrada, il «Pecci» è passato da anni di grande splendore e disponibilità finanziaria sotto la direzione di Amnon Barzel, a un lungo periodo di stenti in cui è stato vissuto come superato. Prima di dar vita al cantiere, l'ultimo direttore Marco Bazzini era stato bravo a far le nozze coi fichi secchi. Infine la decisione di rilanciare quello che comunque era stata una delle poche eccellenze in una regione, la Toscana, storicamente restia al contemporaneo. La direzione è stata affidata a Fabio Cavallucci, che di esperienza museale ne vanta parecchia. Mentre l'architetto indonesiano-americano Maurice Nio stava lavorando all'ampliamento dell'edificio per portarlo a 3mila mq, che ha chiamato Sensing The Waves, Cavallucci ha pensato a riorganizzare la struttura e ripensarne la funzione.

S'intitola La fine del mondo questa grande collettiva curata dal direttore: una mostra che ospita alcune installazioni spettacolari come la stanza bianca di materiale riciclato di Robert Kusmirowki, il tunnel ricavato da un tronco d'albero di Henrique Oliveira, il branco di 99 lupi di Cai Guo-Qiang. Poiché oggi l'arte visiva implica incroci e contaminazioni, si parla ovviamente di molteplicità di linguaggi con l'introduzione della musica (la doppia proiezione di un videoclip di Bjork), del teatro, con la performance di Pippo Delbono che si accavalla al gruppo scultoreo La classe morta di Tadeusz Kantor, del cinema e l'architettura. Se il tema offre il destro alla riflessione sull'epoca contemporanea, che sopravvive a fatica alle diverse minacce di distruzioni e al ridisegnarsi dell'equilibrio geografico e antropologico, la mostra è peraltro costellata da presenze novecentesche intese come matrici del presente: Boccioni, Duchamp, il Picasso del '37, Bacon e Warhol.

Non ci sfuggono il messaggio o la poetica, armati del ricco catalogo Silvana. Ma per il pubblico, quello che dopo i fasti dell'inaugurazione che ha fatto segnare la considerevole cifra di 12mila presenze, non ci sono sufficienti strumenti di comprensione. Né un testo introduttivo, un apparato didascalico esplicativo, di fronte al quale i critici d'arte up to date inorridiscono, insomma qualcosa che aiuti nel percorso è categoricamente escluso. Ad esempio non si capisce perché siano state scelte queste opere e che relazione abbiano con il tema della mostra. La mancanza di un filo logico e di compattezza risulta il punto debole di una mostra comunque interessante. Le opere sono installate come in una fiera, senza rapporti tra loro, e così la scelta di alcuni lavori lascia perplessi, ad esempio gli australopitechi di Amoroso e Zimmermann, sostanzialmente uguali a una scultura molto famosa del duo inglese Noble&Webster.

Decisamente riuscito il meccanismo di consenso attorno alla riapertura del museo, e il rilancio del «Pecci» come catalizzatore di energia nel contemporaneo.

Con spirito ecumenico, il direttore ha incoraggiato molteplici eventi collaterali, tra cui una mostra sui giovani emergenti in regione e la gemella La torre di Babele, dove ha coinvolto le gallerie più attive in Toscana a selezionare ciascuna un artista, ma il risultato non è all'altezza delle aspettative.

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