Orhan Pamuk: «Scrivo per capire la mia rabbia e per essere felice»

L'autore premio Nobel incarna la relazione fra Oriente e Occidente: «Nel '74, quando scelsi il romanzo, non esisteva una tradizione turca»

Orhan Pamuk al Museo dell'innocenza a Istanbul
Orhan Pamuk al Museo dell'innocenza a Istanbul

Alessandro Gnocchi

nostro inviato a Sharjah

Ecco qualcuno completamente uguale e completamente diverso da noi, noi occidentali: Orhan Pamuk, premio Nobel per la Letteratura nel 2006. Nato a Istanbul nel 1952, è autore di bestseller mondiali (Il mio nome è rosso, Istanbul e molti altri) tradotti in 63 lingue. Netflix, la tv in streaming, sta progettando una serie tratta da un suo romanzo. Quale? Top secret. Pamuk è l'ospite d'onore della International Book Fair di Sharjah, la più importante fiera del libro in lingua araba. Il giorno dell'inaugurazione fa il pienone nella Ballroom, la sala per gli eventi di gala, c'è anche l'Emiro tra le circa millecinquecento persone presenti. Pamuk si racconta con un peculiare ardore, anche dopo l'incontro. Firma libri, risponde alle domande dei media e dei lettori, si lascia fotografare volentieri. Se ne va dopo due ore. Distrutto ma sorridente. Quest'uomo, all'apparenza compassato, ha qualcosa che brucia dentro. Si capisce appena apre bocca. È rabbia ben indirizzata, forse: «Sì, è anche rabbia. Scrivo nella speranza di capire perché sono così arrabbiato. Ma anche per essere felice». L'ha detto, del resto, anche nel breve ma eccezionale discorso di accettazione del Nobel.

Il giovane Pamuk non pensava certo di essere premiato dall'Accademia di Stoccolma. Aveva altre ambizioni: «Ho scritto un libro, Il mio nome è rosso, sui pittori islamici del XIV, XV e XVI secolo. L'ho fatto perché io stesso ho desiderato essere un pittore. Fino a 22 anni sono stato educato e ho studiato per diventare pittore o architetto. Vengo da una famiglia di ingegneri, l'architettura sembrava un giusto compromesso tra velleità artistiche e concretezza». A 22 anni cambia strada: «Volevo imparare a scrivere romanzi. Ho raccontato questa trasformazione in Istanbul, che si chiude con l'annuncio a mia madre: non farò l'architetto, non farò il pittore, sarò uno scrittore. Per questo Il mio nome è Rosso parla di pittori. Ma i pochi pittori contemporanei che vedevo attorno a me erano influenzati dall'arte europea. Io volevo scrivere di cosa significa essere pittore nell'islam. Per questo ho guardato al passato. Attraverso i miniaturisti ottomani ho potuto raccontare storie islamiche classiche in modo moderno».

Così uguale, così diverso: Pamuk ha preso il romanzo occidentale ma lo ha trapiantato in una tradizione, quella turca, che non forniva molti appigli. E questo apre uno squarcio su cosa rappresenta l'opera di Pamuk. Per un lettore occidentale: uno sguardo profondo su un mondo che cerca di risolvere contraddizioni secolari. Per un lettore orientale: uno sguardo profondo sulla nostra modernità, difetti inclusi, e sul proprio passato, da salvare. Sentiamo cosa ne pensa Pamuk: «Nel 1974, quando scelsi il romanzo, non esisteva una tradizione turca in quel campo. Gli scrittori della generazione precedente alla mia pensavano che la spiegazione fosse questa: la cultura turca in fondo non aveva mai recepito l'individualismo, dominava la dimensione comunitaria». E qui dall'arte passiamo a differenze e similitudini tra Oriente e Occidente: «Credo che la grande scoperta dell'Occidente sia il punto di vista dell'individuo. Pensiamo alla prospettiva. L'uomo vede con i suoi occhi. È una svolta radicale. Porre l'accento sul punto di vista dell'individuo significa anche valorizzare il concetto di stile. A ognuno il suo. Tanti individui, tanti stili. Il romanzo è un prodotto tipicamente occidentale, fu inventato, nella sua forma moderna, da autori come Balzac, Hugo, Stendhal. Descrivevano il mondo attraverso gli occhi di uno o più personaggi, ognuno dotato di una sensibilità diversa. Forse è questa la differenza principale nella storia tra Oriente e Occidente, comunità e individualismo. Ma in arte avere una personalità ed esprimerla è più importante di ogni altra cosa». La Turchia ha una storia antichissima nel campo della poesia: «È vero. Ogni turco a vent'anni è un poeta. Ma la poesia svolge anche una funzione sociale. Essere in grado di scrivere versi significa dimostrare la propria educazione e l'appartenenza alla nostra tradizione classica. Ora tutti vogliono scrivere romanzi anche in Turchia. Vogliono esprimere un mondo. La poesia ha anche a che fare con l'incanto e la magia. Il poeta parla con la voce di Dio».

Dunque per chi scrive Pamuk? Per i lettori occidentali? «Istanbul è il mio destino. Sono turco, scrivo in turco, scrivo per i turchi. Il romanzo, fin dalle sue origini, è fortemente legato alla storia nazionale. Basta pensare a Stendhal... Ma scrivo anche per chi mi legge in tutto il mondo, una minoranza di lettori, in ogni Paese, che probabilmente segue tutto ciò che accade in letteratura a livello mondiale. Quando scrivo, però, non penso al mercato».

È uno scrittore globale? «La globalizzazione... è un sogno possedere il proprio passato e insieme vivere proiettati nel futuro. Un sogno che difficilmente si realizza. Andare verso il futuro significa dimenticare il passato. Io guardo indietro. I cambiamenti culturali sono così veloci! Il mio ruolo è recuperare il passato, scoprire perché dovrebbe interessarci ancora e mettere in luce le contraddizioni di questa tensione verso il futuro».

Pamuk è uno scrittore che ha suscitato enormi dibattiti, e anche peggio, nel suo Paese. È finito sotto processo nel 2005 per aver parlato senza giri di parole di genocidio degli Armeni e repressione dei Curdi. Due argomenti decisamente scomodi nella Turchia di Erdogan dalle rinnovate ambizioni imperiali, confermate dalle vicende della guerra in Siria. All'epoca, il caso ebbe risonanza internazionale, Pamuk ne uscì scottato ma il tribunale fece cadere le accuse. Uno scrittore politico?

«Il proposito dell'arte è lo stesso, ovunque. È desiderio di esprimersi senza intenti pedagogici. Non si fa arte per insegnare o dimostrare qualcosa. Si fa arte per dare voce a una sorta di musica interiore. Poi siamo esseri umani, pensare e incanalare questa energia verso uno scopo ci viene naturale. Ma il fine può essere anche la ricerca della bellezza o la gioia di capire il mondo». Neve però entrava nel merito del terrorismo islamico... «Molti miei libri hanno sollevato polemiche. Non posso ignorare che brutte cose accadono nella mia parte del mondo. Ci sono scrittori, miei amici, in carcere per aver criticato il potere. Per questo mi imbarazza parlare dei miei problemi. Una triste battuta che circola tra gli scrittori turchi dice che i turchi leggono sempre più romanzi perché la tv e i giornali offrono solo propaganda governativa. Scherzi a parte. Credo che il mio dovere sia scrivere la verità, fino a dove riesco a capirla. Ma gli scrittori politici hanno un limite. Più scrivi di politica, più diventi politico tu stesso e adotti il linguaggio della politica». La questione religiosa è ineludibile: «Vengo da una famiglia di cultura secolarizzata, pro-europea, modernizzatrice, progressista. Il sufismo non era contemplato. Quando mi recai per la prima volta a New York ebbi una specie di crisi d'identità davanti alla ricchezza dell'offerta culturale. Mi chiesi chi ero. A New York leggevo Borges e mi stupivo delle sue acrobazie letterarie. Ma presto ho scoperto che la letteratura sufi, ottomana, arabica e persiana è piena di acrobazie letterarie. In quel momento decisi di approfondire Rumi e la letteratura sufi.

Il mio approccio però resta laico. Nel mio Libro nero ho in parte riscritto in termini secolari la letteratura sufi. Cerco di capire, imparare, prestare attenzione. Non sono religioso ma ho grande rispetto delle religioni».

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