Palma d’oro a Haneke Garrone sul podio con il Grande Fratello

Il regista austriaco vince con un film sull’eutanasia. Gran Prix all’italiano che racconta la nostra smania di Tv

Palma d’oro a Haneke  Garrone sul podio  con il Grande Fratello

da Cannes Matteo Garrone, regista dell’unico film italiano presente al 65° Festival di Cannes, si è portato dunque a casa il Gran Premio della giuria con Reality, un’opera che alla critica francese non era piaciuta troppo, perché considerata non impegnata rispetto al precedente impatto di Gomorra, ma che invece Nanni Moretti e la sua giuria hanno fatto bene a premiare: un affresco paradossale e insieme veritiero sulla post-modernità contemporanea dove l’ansia di apparire può assumere il volto di una vera e propria malattia, una sorta di sindrome del Grande Fratello...

L’impressione generale, vedendo anche gli altri premi, è che la giuria (l’attrice e regista palestinese Hiam Abbass, la regista inglese Andrea Arnold, l’attrice tedesca Diana Kruger, la francese Emmanuelle Devos, l’attore britannico Ewan Mc Gregor, il regista americano Alexander Payne e quello haitiano Raoul Peck, lo stilista francese Jean-Paul Gaultier) abbia comunque sentito molto il peso e le scelte del suo presidente: Ken Loach, il regista inglese dei marginali, degli emarginati e del malessere sociale, molto amato da Moretti, ha ottenuto il Premio della Giuria nonostante un’opera molto leggera; Cristian Mongiu, cineasta romeno che si era affermato cinque anni fa con Quattro mesi, tre settimane, due giorni, si porta a casa il Premio per la sceneggiatura per un film intenso, cupo, calvinista quasi, più che cattolico, nel suo rigore, un’austerità che all’autore di La messa è finita non è estranea. Allo stesso modo, il Premio della regia al messicano Carlos Reygadas (che ha ironizzato, nel riceverlo, sulla «benevolenza» con cui la stampa aveva parlato di Post tenebras lux, in effetti il film più criticato) va letto come il riconoscimento a un regista intellettuale, di quelli che riempiono i cineclub e le sale d’essai più che i grandi cinema.

Trionfatore del Festival è comunque l’austriaco Michael Haneke, che bissa così il successo già ottenuto tre anni fa con Il nastro bianco. Il film, come abbiamo scritto, è molto bello, nel tema (l’invecchiare insieme, il dover affrontare la decadenza fisica e la malattia all’interno di una anziana coppia, il diritto di decidere sulla propria morte), ma soprattutto nell’interpretazione. Nel decretarlo vincitore, Moretti ha infatti sentito la necessità di sottolineare il ruolo giocato dai suoi attori, Jean-Louis Trintignant e Emmanuelle Riva. Nel ringraziare per il premio, Haneke ha tenuto a sottolineare come Amour sia anche una sorta di patto fra lui e sua moglie (insieme da trent’anni) riguardo al loro futuro insieme.
Singolare è l’aver portato in primo piano, come migliori attrici protagoniste, le due interpreti di Al di là delle colline, Cosmina Straten e Cristina Flutur, mentre di difficile contestazione è il riconoscimento al danese Mads Mikkelsen, per il suo ruolo di professore vittima di una falsa accusa di abuso sessuale su un minore, nel film La caccia.

Grandi sconfitti restano i francesi, che con De rouille et d’os di Jacques Audiard, Holy motors di Leos Carax e Vous n’avez encore rien vu di Alain Resnais avevano messo in campo ogni tipo di cinematografia possibile: un mélo mischiato agli effetti speciali il primo, una follia visionaria il secondo, una fantasia teatrale sull’amore il terzo. La loro esclusione da ogni premio farà sicuramente discutere, ma testimonia senz’altro di una giuria che non strizza l’occhio al padrone di casa.
Completa l’elenco dei premi, nella sezione cortometraggi, il riconoscimento a Sessiz-Bed Deng, Silenzio, del turco Zeznan Yesilbas e per La camera d’oro a Beasts of the southern Wild, Le bestie del selvaggio sud, dell’americano Benh Zeitlin.
Condotta da una splendida Bérénice Bejio in lungo abito bianco, la cerimonia si è svolta secondo le regole più classiche di una festa dove il cinema è il soggetto privilegiato di ogni discorso. «Fino a che i registi gireranno film come se sempre fosse il loro ultimo lavoro, e gli spettatori li vedranno come se ogni volta fosse il loro primo film, il cinema non finirà mai», ha detto la protagonista di The Artist. È anche per questo che ha destato particolare commozione, la semplice citazione che ha fatto Jean-Louis Trintignant di una poesia di Jean Prevert che suona così: «Se scegliessimo di essere felici, così, se non altro per dare l’esempio?».

Lontano dal cinema e dai festival da anni, il suo è stato un ritorno applauditissimo, riconoscimento non solo a un grande attore, ma anche al suo dolore di padre, così provato dalla brutale perdita, anni fa, della figlia (uccisa, si ricorderà, dal

marito ubriaco, cantante rock di una certa fortuna, dopo un litigio). Non fermissimo sulle gambe, un’eleganza naturale, una voce delicata eppure forte, Trintignant è stato per molti versi il vero mattatore di questo Festival.

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