Cultura e Spettacoli

Pansa nel mirino dei "baroni rossi"

La battaglia di retroguardia degli accademici contro una nuova lettura della storia d'Italia

Pansa nel mirino dei "baroni rossi"

Più interessanti, anche se scontati, furono gli anatemi che mi arrivarono da un manipolo di intellettuali, quasi sempre docenti di storia in diverse università italiane. Il più accanito si rivelò Angelo d'Orsi, ordinario di Storia del pensiero politico a Torino. All'inizio del 2004 pubblicò sulla rivista «MicroMega» una lunga requisitoria contro il revisionismo.

Scritta in uno stile da burocrate sovietico e in un pessimo italiano, evocava a mio disdoro, «la protettiva ombra del berlusconismo e dei suoi immediati pressi».Il suo stralunato atto d'accusa merita di essere ricordato per una singolare schedatura che lo accompagnava: la lista nominativa di signori che non dovevano permettersi di pubblicare ricerche storiche. Queste lingue da tagliare erano diciotto, compresa la mia. Tra loro c'erano intellettuali stimati come Sergio Romano, Francesco Perfetti, Ernesto Galli della Loggia, Giovanni Belardelli, Giovanni Sabbatucci.

E giornalisti come Paolo Mieli, Pierluigi Battista, Giuliano Ferrara, Silvio Bertoldi, Gianni Oliva, Antonio Spinosa, Arrigo Petacco, Antonio Socci, Renzo Foa. «E l'elenco potrebbe continuare» minacciava d'Orsi, «arrivando sino alla più sgangherata frontiera della battaglia per la libertà di stampa». Eppure la faccenda non si concluse lì. Il direttore di «MicroMega», Paolo Flores d'Arcais, andò in orgasmo per la lista d'Orsi e decise di sfruttarla per guadagnare qualche lettore alla sua rivista quasi clandestina.La domenica 8 febbraio 2004 decise di trasferire una parte dell'elenco in un'inserzione pubblicitaria sul paginone culturale della «Repubblica». Una gogna stampata su 646 mila copie.

Con un titolo di quelli furenti: Basta con i falsi storici. La manipolazione permanente della verità da parte dei vari... Seguivano i nomi di dieci loschi figuri, compreso il sottoscritto. Un altro gendarme della memoria molto solerte nel pestaggio verbale del Pansa si dimostrò di nuovo un docente di Storia dell'Università di Torino, Giovanni De Luna . Lui aveva a disposizione un quotidiano importante, «La Stampa». Nel 2003 era diretta da Marcello Sorgi, un collega che non digeriva i libri del sottoscritto, ma senza avere il coraggio di dirmelo affrontandomi in modo diretto.Sul «TuttoLibri» del 25 ottobre 2003, De Luna mi dedicò una lunga stroncatura intitolata Pansa, il sangue dei vinti visto con gli occhiali della Repubblica sociale italiana. Il titolo mi inorgoglì. L'accusa era quella che, tanti anni prima, nel 1952, era stata scagliata dall'«Unità» contro un libro del grande Beppe Fenoglio. Colpevole di vedere la guerra partigiana «dall'altra sponda», ossia dal versante dei fascisti.Al professor De Luna dovevo stare sui santissimi. Infatti quando venne intervistato dalla solita Simonetta Fiori di «Repubblica», disse che ero «straordinario nell'intercettare lo spirito del tempo». In parole povere un furbastro che fiutava il vento nuovo berlusconiano a cui accodarsi. Ma devo dedicarmi a un altro docente che mi prese di mira. Un big, così sembra, della ricerca storica: Sergio Luzzatto.Anche Luzzatto, genovese, quarant'anni giusti all'uscita del Sangue dei vinti, insegnava Storia all'Università di Torino.

Ma rispetto agli altri gendarmi era un tipo avventuroso che aspirava alla notorietà. Scriveva i pezzi di polemica come un qualunque giornalista pittoresco. Nel dicembre 2002 aveva accettato di presentare a Genova I figli dell'Aquila e quel pomeriggio non mi sembrò che il Pansa gli facesse ribrezzo. Invece Il sangue dei vinti gli suscitò un disgusto profondo.Lo manifestò tutto nell'ottobre 2004. Una sera Giuliano Ferrara e Ritanna Armeni lo invitarono a Otto e mezzo, il loro talk show sulla Sette, a illustrare un suo pamphlet appena uscito, dedicato alla crisi dell'antifascismo. Accanto a lui c'ero io che avevo pubblicato in quei giorni Prigionieri del silenzio.La vicinanza, penso poco gradita a Luzzatto, mi trasformò nel suo bersaglio. Un ruolo che in fondo mi piaceva, poiché ero sempre attratto dalla rissa culturale, chiamiamola così. Tuttavia io ero soltanto un misero rappresentante di una categoria da aborrire: l'intellighenzia occidentale che, a sentir lui, aveva rinunciato a riflettere sul ruolo storico della violenza come levatrice di progresso.Quella sera Luzzatto mi sembrò un esemplare perfetto del signor Ghigliottina, nostalgico dei tagliatori di teste della Rivoluzione francese. E in quei panni mostrò di essere implacabile.

Sostenne che la moralità della Resistenza consisteva anche nella determinazione degli antifascisti di rifondare l'Italia a costo di spargere molto sangue.Il signor Ghigliottina si rivelò pirotecnico. Sostenne che era sbagliato impregnarsi di buonismo. Spiegò: «Per questo non accetto il pansismo. Ossia la rugiadosa sensibilità di chi si scandalizza e quindi equipara una certa violenza partigiana, che pure Giampaolo Pansa ha avuto il merito di documentare, con quella fascista».Lo ascoltai sorridendo. A me Luzzatto sembrò un uomo delle caverne che esca dal suo antro con la clava e si scateni contro mezzo mondo.

Intervistato da Dario Fertilio del «Corriere della Sera», aggiunsi: «Se è vero che l'antifascismo è in crisi, senza volerlo Luzzatto gli spara un colpo alla nuca».

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