Lo diceva Anita a Mastroianni, immersa nella fontana. «Marcello, come here!». E cinquant'anni dopo (con un filo d'ironia), lo ripete Sandra: «Federico, come here!». Già: perché la vera musa di Fellini fu Sandrocchia (come la chiamava il maestro); non la Ekberg. E Federico, come here! - lo spettacolo con cui, da stasera al Teatro Arcobaleno di Roma, Sandra Milo ripercorre fasti e magie della sua dolce vita felliniana - lo rivendica. «Io e Federico siamo stati follemente innamorati, all'insaputa del mondo, per diciassette anni. Ero bella, allora, e la bellezza ispira sempre gli artisti. Anche per questo credo che lui mi amasse. Ho aspettato che lui e la moglie morissero, prima di svelare tutto, alcuni anni fa. E oggi, con questo spettacolo (ideato da Walter Palamenga, che in scena interpreta Fellini, e scritto da Nicola Bonimelli) ripercorro quell'antico amore».
Uno spettacolo-confessione, dunque? Una rivendicazione? Un'outing scenico?
«Il racconto insolito di un amore insolito. Rievocato dai miei ricordi in prima persona, con l'apporto elegante ed intrigante di attori, cantanti, ballerini, sulle inconfondibili note di Nino Rota. Cercando anche di restituire l'atmosfera di un mondo in cui il cinema era sogno. E il cinema si faceva sognando».
Dunque amante nella finzione di «Otto e mezzo» come nella realtà?
«Non esattamente. Come con Marcello verso Carla (cioè il personaggio di Federico verso il mio personaggio) allora l'attrazione di Federico per me era solamente fisica. Io invece m'ero proprio innamorata di lui. Aspettai che se ne accorgesse. E la passione travolse entrambi durante Giulietta degli spiriti. In modo fatale, totalizzante. Inesorabile, anzi. Perché nemmeno la morte ha potuto interromperla».
Ma lei non era amica per la pelle di Giulietta Masina, devota moglie di Fellini?
«Fummo molto amiche a lungo, si. Ma ammesso e non concesso che abbia saputo qualcosa, Giulietta era una donna speciale, molto diversa dalla moglie borghese che s'immagina. E certamente avrebbe capito. In ogni modo, anche se avessi voluto, non sarei mai riuscita a staccarmi da Federico».
Eppure il biografo più accreditato di Fellini, Tullio Kezich, nega che questa passione sia mai esistita. La definisce solo una sua «simpatica, fantasiosa costruzione mentale».
«E che poteva saperne, Kezich? Federico non era uomo da confidare i propri amori a nessuno. L'unico col quale parlò di me fu Mastroianni. Ma molti altri lo sapevano: il produttore Cristaldi, ad esempio».
E allora perché finì? Perché era una passione clandestina?
«Al contrario. Proprio la sua segretezza lo rendeva un amore straordinario: da favola. Mentre quando lui cominciò a fare per noi progetti sentimentali e professionali, io mi spaventai. La routine di un rapporto "ufficiale" avrebbe distrutto la magia. E io non volevo che la nostra storia diventasse la stessa di tutti».
Fu per questo che rifiutò il suo terzo ruolo felliniano, quello di Gradisca in Amarcord? Le costò fatica?
«Non tanto per il ruolo in sé. Ma perché non avrei più avuto la possibilità di stare vicina al mio amore».
Lei incarnava allora l'immagine biondissima e trionfante dell'«oca giuliva». Ne era consapevole?
«Erano il mio fisico e la mia voce, a spingermi verso quel tipo di personaggio. Sul quale, poi, io giocavo con ironia. In quegli anni per le donne non era consigliabile mostrarsi troppo intelligenti. Gli uomini preferivano bellezze che non danno pensiero. Forse è ancora così».
Non per passare dalle stelle alle stalle... ma lei è ricordata anche per il grido con cui reagì ad uno scherzo telefonico di pessimo gusto, che le fecero anni fa in diretta tv.
«Ah, si... Quando mi dissero che mio figlio aveva avuto un incidente e io gridai in diretta disperatamente "Ciro, Ciro!". Quella scena è diventata un must mediatico.
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