Piacerà più agli storici che ai cinefili, e più che a un festival del cinema (dove pure sta benissimo) dovrebbe passare in televisione. Anche perché - tra fake news, post-verità e l'eterno balletto mediatico-politico fra verità e menzogna - il tema è attualissimo.
In piedi. «L'udienza è aperta!». Al Lido ieri è stato presentato fuori concorso, dentro la Sala grande del Palazzo del cinema di Venezia che per due ore è diventata la Sala delle colonne della Casa del Sindacato di Mosca, il film-documentario Process del regista bielorusso, ma cresciuto in Ucraina, Sergei Loznitsa. Una lezione di cinema e di Storia.
La storia - ricostruita con un film di montaggio basato su uno straordinario materiale d'archivio rimasto fino a oggi inedito - è quella di uno dei primi processi farsa architettati da Stalin, quando nell'Urss del 1930 un gruppo di economisti e ingegneri viene accusato di avere organizzato un colpo di Stato contro il governo sovietico attraverso un fantomatico «Partito dell'Industria» (mai esistito). È la macchina del Terrore che inizia il suo lavoro, destinato a sfociare nelle ben più celebri e sanguinose purghe del 1936-38. Ora alla sbarra è l'«intellighenzia tecnica» moscovita, l'élite alla quale viene addossata la colpa di aver boicottato la buona riuscita dei piani economici per distruggere il potere sovietico e restaurare il capitalismo con l'aiuto segreto delle potenze occidentali. Sono loro - quasi muti, remissivi, docili nell'offrire il capo alla sentenza dei giudici - le vittime sacrificali della difficile situazione economia e sociale dell'Unione sovietica. La tragedia è reale, ma il processo è falso. I «sabotatori» sono costretti platealmente a confessare crimini mai commessi. Vengono condannati - mentre fuori manifestazioni di piazza chiedono giustizia - ma non finiranno fucilati, né imprigionati, solo «riconvertiti» ad altre mansioni... Il popolo - accecato dallo slogan «La menzogna è verità» - può continuare a dormire tranquillo all'ombra del Partito.
Il documentario di Sergei Loznitsa è Storia. Eppure sembra un film, tanto è coreografata la messa in scena del processo («Stalin aveva bisogno di dare in pasto al Paese i responsabili della sua sofferenza, e ha allestito una performance perfetta: guardate gli imputati, sembra che recitino»). E nello stesso tempo è un grande film sulla Storia che, come sempre, narrando fatti di ieri ci parla dell'oggi. «Quel processo era pubblico, le riprese mostrate a tutti, e gli atti pubblicati: fu un utilizzo scientifico dei media per nascondere i problemi politici. Oggi il meccanismo è lo stesso, perfezionato dalla tecnologia: le tv e Facebook portano tutto su un piano più vasto, complicando ancora di più le cose».
Sergei Loznitsa - che qui a Venezia incantò tutti nel 2016 col suo Austerlitz e che ieri ha lanciato un appello a favore della liberazione del cineasta ucraino Oleg Sentsov, detenuto in carcere in Russia da quattro anni, appello subito accolto e rilanciato dall'intera giuria della Mostra - da parte sua le ha rese molto semplici. Dopo aver scovato il materiale in un archivio di Mosca, lo ha ripulito, montato come un film, ha conservato il suono originale inserendo solo una fuga di Bach e aggiunto un breve commento finale.
«È un commento necessario per affermare la verità giacché è impossibile discernerla in qualsiasi altro momento. Process è un esempio unico di un documentario in cui si vedono 24 fotogrammi di bugie al secondo». E alla fine è una delle cose più vere della mostra.
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