Quel professore-sfinge ossessionato dalle parole

Fra avventure etimologiche e religione dell'insegnamento alla facoltà di Filosofia alla Sapienza

Fabrizio Ottaviani

Il celebre professore Tullio De Mauro teneva lezione alle otto e mezza del mattino in una dipendenza di Villa Mirafiori, sede della facoltà di Filosofia della Sapienza circondata da un parco: un luogo in sintonia con la sua matrice epicurea, di ex napoletano condotto a Roma dal padre farmacista quando le bombe che gli americani sganciavano sul Golfo avevano preso a cadere un po' troppo vicino alla dimora signorile nella quale viveva una famiglia composta anche di una madre laureata in matematica e di un fratello, Mauro, futuro giornalista dalla vicenda tragica.

Quando entrava in classe, sui volti dei cento uditori si accendeva la fiamma dell'avventura intellettuale. Ascoltare Tullio De Mauro equivaleva ad entrare nel modo dei concetti per la strada maestra. Il massimo linguista, filosofo del linguaggio, storico della lingua e dialettologo italiano percorreva le file dei banchi argomentando per due ore, senza servirsi di appunti. Non il linguaggio: le parole erano la sua ossessione. Dopo averlo ascoltato, parlare diventava un'esperienza simile all'allungare una mano per accarezzare un gattino scoprendo che si tratta di una tigre. Nella prima lezione ci spiegò che un insulto siciliano, tinto, risale all'epoca in cui un'eresia si era diffusa sull'isola e molti si facevano battezzare per immersione. Non credo sia mai esistita parola dell'italiano, toscano o vernacolare, di cui non sapesse l'essenziale. Inoltre, in un mondo come quello accademico, spesso penosamente tattico e che brilla per trasparenza quanto una palude alluvionale, era capace di sollevare la cornetta del telefono e annichilire il collega che aveva bocciato all'esame di dottorato un candidato di valore. Ma questi erano lampi.

Ciò che aveva scritto di Benedetto Croce nella Introduzione alla Semantica (che, cioè, il volto bonario di Croce nascondeva una sfinge) era anche un autoritratto. Se si varcava un invisibile confine, si aveva l'impressione di essere di fronte a un enigma. Probabilmente la sua discrezione era una metamorfosi dell'onestà intellettuale. Una volta una studentessa, durante una lezione, citò l'ancora oscuro Oliver Sacks.

De Mauro rispose di non conoscerlo, ma l'indomani, appena entrato nell'aula, raccontò che la sera precedente aveva fatto un salto in libreria e aveva acquistato (e subito letto) i sei libri di Sacks disponibili. «Adesso sì, posso rispondere alla sua domanda, signorina» le disse con un lampo negli occhi.

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