Ha preso a pugni la poesia come la vita, lottando sempre contro una società che definiva un luogo dove «la sintassi ha sostituito la tenerezza». Sempre all'angolo, ha messo alle corde il meglio del ring letterario non solo della sua epoca: ha anticipato il movimento dadaista, quello situazionista e persino la scrittura del miglior Louis-Ferdinand Céline. Arthur Cravan è stato un Grande trampoliere smarrito, come recitano i versi di una sua poesia e come si intitola l'antologia edita da Adelphi (pagg. 196, euro 13, a cura di Edgardo Franzosini, traduzione di Maurizia Balmelli e Nicola Muschitello.
Una raccolta di scritti, poesie e lettere (queste tutte inedite in Italia) che rivelano l'estrosa personalità di Cravan: un poeta che per sostenere la propria rivista letteraria Maintenant! - di cui era editore, direttore, redattore, notista, corrispondente - combatteva come pugile e con i soldi guadagnati la stampava e la vendeva per le strade di Parigi usando un carretto da ortolano. Come scrive Edgardo Franzosini - tra i migliori scrittori italiani, autore Adelphi di romanzi come Sotto il nome del Cardinale e Questa vita tuttavia mi pesa molto - Arthur Cravan fu poeta, pittore, critico d'arte, conferenziere e pugile, ma anche raccoglitore di arance nelle piantagioni della California, pescatore di merluzzi al largo di Terranova, conducente di taxi e ricattatore: tutte attività che interruppe perché, come lui stesso scriveva, era attratto dalla «meravigliosa vita del fallito».
Ma Cravan è stato tutto, fuorché un fallito: nato a Losanna nel 1887, nipote di Oscar Wilde, il suo vero nome era Fabian Avenarius Llyod, poi trasformato in Arthur (come Rimbaud) e Cravan (come il paese d'origine della sua amante). Fu adorato da Cocteau e André Breton (il quale scrisse che tra le pagine della rivista Maintenant «certe preoccupazioni extra-letterarie e anche antiletterarie per la prima volta presero il sopravvento»), paragonato dal poeta Blaise Cendrars a Novalis e Rimbaud, ricordato da Apollinaire come intellettuale che «fa a pugni con i suoi ricordi e i suoi mille desideri», eroe che ispirò ad André Gide il protagonista del romanzo I sotterranei del Vaticano, mentre per Vaneigem, sociologo francese tra i fondatori del Situazionismo, «Arthur Cravan è stato il campione del mondo di nichilismo e ha dato corpo alla sfida di Arthur Rimbaud contro la civiltà». Lasciando al lettore le attività di Cravan pugile - molto dettagliate nel racconto-biografia di Franzosini che chiude la raccolta - è l'uomo-artista a colpire più duro.
Cravan lotta contro «l'arte dei borghesi e per borghese intendo un signore privo di immaginazione»: si considera un «prosatore dal passo misurato e un poeta dal passo di orso», un «grande trampoliere smarrito» ma in grado di mettere al tappeto «i pittori che usano sempre colori puri», che sono «come il pennaiolo che dice sempre merda». Perché in quella Parigi del primo decennio del '900 per Cravan tutto era falso (e da qui il suo precedere il Dadaismo). Durante le conferenze era capace di spogliarsi completamente sino a essere arrestato per diversi giorni, oppure di sparare in aria diversi colpi di pistola mentre recitava una poesia (e da qui il Situazionismo).
Alla vigilia della Prima Guerra Mondiale scrisse: «Mi sarei vergognato a lasciarmi incastrare dall'Europa - che muoia pure, io non ho tempo». Precursore anche in questo caso di una logica che oggi condividono in molti. Si trasferì a New York, dove frequentò il Greenwich Village degli artisti condividendo con loro le posizioni, ma non la notte (dormiva sulle panchine di Central Park): poi, per non essere richiamato alle armi (dimenticandosi che essendo cittadino della neutrale Svizzera era esentato dall'obbligo di combattere), si rifugiò in Canada, prima travestendosi da soldato e poi da donna (risultando in ciò poco credibile, essendo un peso massimo di un metro e novanta per cento chili).
Anche la sua morte sembra uscita da un romanzo. Avvistato per l'ultima volta al largo di Salina Cruz, in Messico, secondo Breton morì nel naufragio, per altri fu colpito a morte dalla polizia di frontiera, per altri ancora cambiò nome diventando il romanziere B. Traven (la cui vera identità è uno dei misteri della letteratura), mentre l'ipotesi più accreditata è quella di Marchel Duchamp che davanti a uno notaio scrisse: «Avendolo conosciuto bene, dichiaro che solo il decesso può essere stato la causa della sua scomparsa».
È impossibile scrivere delle sue opere tralasciando la sua vita, perché Cravan, anche provocatoriamente, ha sempre «cercato di considerare l'arte un mezzo e non un fine». La sua rivista letteraria uscì in soli cinque numeri (alcune pagine sono riportate in Grande trampoliere smarrito), ma Cravan più che il segno ha lasciato lividi. Come quando in To be or not to be... American anticipa di decenni l'influenza degli Stati Uniti nella nostra cultura. Scrive nel 1909: «Oggi sono tutti americani. Bisogna essere americani, o quantomeno sembrarlo, il che è esattamente la stessa cosa». E ancora: «Un vero americano non parla mai, parla a monosillabi, la più elementare conoscenza del suo idioma è superflua, e azzardo che un semplice sì (che dice Ia), pronunciato ogni minuto, è sufficiente a sostenere una conversazione. Si converrà che anche la mente più ottusa sarà in grado di impararlo».
Ricordano i versi di Baudelaire nelle Lettere alla madre: «L'America ci atrofizzerà il cuore», ma le parole di Cravan, la sua esistenza, i suoi scritti, le sue poesie e le sue lettere risultano di un anticipo tremendo.
Forse è stata solo questa la sua vera, unica colpa: aver anticipato anche se stesso, quando scriveva «io sono il profeta di una nuova vita e vivo solo io». Parole che allora potevano suonare presuntuose, ma che hanno crudelmente anticipato anche il nostro individualismo estremo.
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