Quando De Benedetti disse: «Repubblica ormai è un disco rotto»

Il 1º ottobre 2008, giorno del mio compleanno numero 73, mi dimisi e firmai il contratto che mi aveva offerto Antonio Polito, il direttore del Riformista. Quella stessa mattina, dall'ufficio del mio nuovo editore, Giampaolo Angelucci, mandai tre fax per avvertire che toglievo il disturbo e me ne andavo dal gruppone.Uno era per Daniela Hamaui che, poco dopo, al telefono si mise a strillare come una padrona di casa che veda andarsene il cuoco filippino alla vigilia del pranzo di Natale. Il secondo a Ezio (Mauro, ndr) che si limitò a dirmi: «Ti abbraccio. Sei il mio maestro». Il terzo a De Benedetti. Lui mi cercò subito, non appena ricevuto il fax. E disse: «Voglio capire perché te ne vai. Dobbiamo vederci e parlarne».Il 26 novembre ci incontrammo nel suo ufficio romano in via Cristoforo Colombo all'Eur, sull'altro lato rispetto a largo Fochetti dove stanno i suoi giornali. Da quanti anni non incontravo l'Ingegnere? Forse dal 2003, durante una cena a casa sua con Bernardo Valli, una delle grandi firme di Repubblica. Lo trovai un tantino appesantito, come succede quasi sempre a noi signori anziani. Aveva settantaquattro anni, uno più di me. Le guance erano da vero bulldog, energico, pronto a scattare.Il nostro fu un lungo colloquio, molto amichevole. Gli spiegai perché avevo lasciato il suo gruppo. L'Ingegnere ascoltò con attenzione, ma non mi rivolse domande né espresse commenti. Poi, senza che lo sollecitassi, mi parlò di «Repubblica», con una franchezza che mi stupì.Mi sono rimasti in mente tre giudizi. «Rep» era un disco rotto, ripeteva sempre le stesse cose contro Berlusconi: «Se il Cavaliere fa cucù alla cancelliera Angela Merkel, per tre giorni leggiamo lo stesso articolo, scritto da opinionisti diversi». «Rep» era un corpaccione, un giornale elefantiaco, strapieno di giornalisti, difficile da maneggiare.

«Rep» era prevedibile, noiosa, si conosce già che cosa scriverà, senza più sorprese per i lettori. Insomma, un giornale prigioniero di se stesso. Immerso nel disastro della carta stampata, con le vendite e la pubblicità in calo costante.Giampaolo Pansa

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