Quando "L'emerocallo" del finto Montale beffò "Domenica in" e la critica letteraria

Nel libro di Antonio Ricci la storia di uno scherzo da premio Nobel

Quando "L'emerocallo" del finto Montale beffò "Domenica in" e la critica letteraria

Un giorno Massimo Giletti mi telefonò per farmi una proposta alquanto strana. Mi chiedeva, come aveva già fatto con altri personaggi dello spettacolo, di andare da lui a Domenica in a recitare la mia poesia del cuore. Contrariamente a quanto possiate pensare, non ce lo mandai subito, ma presi tempo. Gli feci poi sapere che non sarei andato personalmente, ma gli avrei mandato una cassetta. Mi ero studiato di declamare una poesia di Montale.

Un Montale minore e inedito. Il frammento di una lirica in qualche maniera rifiutata. Poche rime, in margine a un manoscritto, da me ritrovato fortunosamente. Un Montale sorprendente, quindi, mai ascoltato prima, nemmeno dai più esperti filologi del premio Nobel. In altri termini, un falso.

Così mi misi a comporre le due quartine de L'emerocallo.

«Come l'emerocallo che scolora/ nella bruma diffusa della sera/ sempre svanisce nel ricordo/ questa allegrezza inquieta./ Sfrombola il falco, l'ulivo s'inciela/ e vibra in un titubo sussurro/ l'incerta attesa per altre aurore/ d'incrinati presagi e nuovi inganni».

Spedii il video in cui il Gabibbo presentava la scoperta dell'inedito e io, seduto dietro la scrivania di Striscia, che declamavo. Siccome avevo un reale carteggio del poeta con una studiosa finlandese, preparai il pacco con le buste dell'epoca, carta e macchina per scrivere, pronto all'occorrenza, se richiesto, a esibire la poesia dattiloscritta, ovviamente da me riprodotta.

Le buste dell'epistolario fra Montale e la studiosa erano autentiche. In una delle lettere quest'ultima chiedeva se per caso ci fosse una poesia rifiutata. E in mezzo a una serie di cose vere, il falso, camuffato. Avevo deciso che avrei fatto vedere le fotocopie, poi il carteggio e all'interno la poesia.

L'emerocallo è un fiore dalla bellezza caduca. Avevo sviluppato il tema della fragilità e della bellezza effimera. L'opera creata aveva accenti di Sbarbaro, Gozzano, perfino Pascoli. Ma questo non era certo un problema.

All'ultimo mi prese lo scrupolo e feci intendere a Giletti che, forse, anche la poesia del cuore non sempre ha ragione. A Domenica in la cassetta con la poesia fu mandata comunque in onda e senza alcun commento. Nessuno segnalò l'apocrifo. Una reazione paradossale, che mi fece pensare, facendomi tornare alla mente la battuta finale di A qualcuno piace caldo, di Billy Wilder, quando il miliardario Osgood Fielding III, che vuole sposare Daphne (Jack Lemmon, travestito), apprende la verità. Daphne finalmente toglie la parrucca e mostra all'irriducibile corteggiatore la sua vera identità di maschio, ma lui, anziché scandalizzarsi o vergognarsi dell'altro e di se stesso , esclama quelle parole che diverranno le più celebri, forse, del cinema comico di tutti i tempi: «Nessuno è perfetto!».

Dimostrava così di essersi perfettamente adattato alla nuova realtà, che non poteva eludere, e che accettava perfino nella finzione.

L'imprinting del falso è più forte della consapevolezza razionale del vero. Una volta instauratosi, è difficile sradicarlo.

Così Giletti, forse per stare al gioco, pur avendo appreso o avendo gli strumenti per capire il tarocco, lo assumeva come vero, anche perché era del tutto verosimile che l'avesse composta Montale. Era sufficiente che sembrasse vera, perché lo fosse: Nessuno è perfetto!

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