Sì, Polli di allevamento. Me lo ricordo bene quello spettacolo, con la stessa sensazione di amarezza e delusione che si ha quando finisce un amore intenso e tormentato, un amore importante però, di quelli come ne capitano pochi in una vita. Perché era stato un amore vero, il nostro per il movimento - su questo non ho dubbi -, e come tutte le storie che contano davvero anche questa era stata segnata da qualche incomprensione, da punti di vista diversi, da slanci di condivisione e da qualche incazzatura.
Non c'è dubbio, però, che si sia trattato di un decennio importante, che ci ha lasciato dentro un segno indelebile, un'impronta che non si cancella, un senso di condivisione e complicità che ci è rimasto addosso per tanto tempo e che piano piano però abbiamo visto invecchiare, diventar ci estraneo fino a farci sentire il bisogno di un definitivo allontanamento. Eravamo arrivati alla fine del 1978 e questa storia, cominciata circa dieci anni prima, per noi era arrivata al termine: era tempo di divorzio e quell'anno certamente noi sancimmo un divorzio definitivo da un certo tipo di persone e di sogni che sino a quel punto, seppure con qualche dissonanza, avevamo comunque sentito nostri.
Come ti ho detto, già in Libertà obbligatoria non erano mancati da parte nostra momenti di critica, ma ti ricordi com'ero sorpreso dal fatto che quella critica non avesse portato a una reazione violenta come invece è successo poi con Polli di allevamento? Il fatto è che in questo spettacolo c'è un vero e proprio punto di svolta, un cambiamento anche di linguaggio e, se prima avevamo dichiarato apertamente la nostra simpatia per quelle idee e avevamo insieme condiviso tante speranze per un vero cambiamento, con questo spettacolo la nostra posizione si fa differente: per la prima volta mettiamo da parte quel noi - a volte critico, a volte amaro, ma comunque ripetuto come una chiara appartenenza - per segnare un distacco, un divorzio appunto. Ecco perché in precedenza brani come Quando lo vedi anche o Si può non avevano causato reazioni violente: c'era sì un allarme per quello che ci sembrava stesse accadendo, per la crescente omologazione anche all'interno del movimento, per il rischio di una libertà mutilata, per la difficoltà di reagire a una malattia subdola e invisibile che consumava la nostra coscienza di singoli individui; c'era sì tutto questo, ma era come se riguardasse una generazione di cui noi per primi, Giorgio e io, ci sentivamo parte.
Con Polli di allevamento non è più così. Eravamo arrivati a una frattura, a un'interruzione, come se dopo non ci fosse più niente da dirsi e da dire, come se la fine del decennio coincidesse con l'inizio di un vuoto dai confini indefiniti. Era certamente la fine di un'epoca, tanto che lo spettacolo, a differenza dei due precedenti, fu replicato per una sola stagione e a maggio Giorgio decise di sciogliere la compagnia. \ Alla chiusura del sipario, quello di Giorgio non sembrava un arrivederci, ma un vero e proprio addio, una porta sonoramente sbattuta in faccia che segnava, senza ritorno, la fine di una relazione d'amore.
Adesso la nostra strada e quella del movimento si separavano, la vicinanza era finita: non ce ne fregava più niente di quello che loro avrebbero detto o pensato, delle loro critiche, delle solite accuse di qualunquismo che hanno sempre accompagnato il nostro lavoro. Con quelle ultime parole il sogno svaniva, lasciandoci addosso tutta l'amarezza di una speranza delusa.
Si chiudeva un periodo, un periodo complesso e faticoso, e quello che si apriva davanti a noi era uno spazio vuoto, totalmente privo di riferimenti. Ci sarebbe voluto del tempo e tutta la nostra fiducia nell'uomo per ritrovare la forza di cominciare a riempirlo, quel vuoto.
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