L'aura che circonda la Traviata inaugurale della Scala non è solo frutto dell'immancabile battage pre-Sant'Ambrogio, ma nasce dalla stessa unicità del celeberrimo melodramma di Verdi, singolare a partire dalla sua (presunta) caduta e resurrezione nella stessa città, Venezia. Dopo il non soddisfacente esito al Teatro La Fenice (1853), Verdi scrisse ad uno dei suoi più fedeli amici in laguna, Cesare Vigna: «Non desidererei di meglio che vedere rimontata la Traviata, che, tu lo sai, amo come tutte le altre opere mie, ma vorrei che ciò si facesse con artisti eccellenti, e soprattutto adatti a quella musica. Per la Traviata si richiede una prima donna di altissimo sentire, di canto appassionato, e di bella presenza. Senza questa qualità è impossibile un successo». Meditando dove riprenderla, in risposta ad un amico cui piaceva quella «povera peccatrice così sfortunata a Venezia», disse che non l'avrebbe data a Napoli perché «i vostri preti ed i vostri frati avrebbero paura di vedere sulle scene quelle certe cose che essi fanno ben all'oscuro e che sarebbe meglio farle al chiaro di sole in pubblica piazza». Parole schiette, chiarissime. Come il giudizio sulle potenzialità dell'opera: «Mi ostino a credere che non sia poi così cattiva diavola come si vorrebbe: che il terzo atto è di gran lunga superiore al resto dell'opera. Tutto dipende dalla prima donna». Parole profetiche, perché dalla resurrezione (1854) tutto dipende sempre dalla «prima donna». L'amato Alfredo è, tutto sommato, come il principe consorte, una parte non troppo simpatica - nonostante il ravvedimento finale, andando le simpatie del pubblico, verso Violetta e Germont padre, che pretende il sacrificio della mantenuta e poi ammira la dignità della rinuncia. Figura unica, dunque, sintetizzata da una risposta del suo Autore a chi gli vantava le benemerenze della giovane Gemma Bellincioni, candidata al ruolo di Desdemona, sottolineando che aveva fatto bene Traviata.
Verdi rispose che non era l'opera adatta per giudicare una voce, trattandosi di un ruolo atipico, speciale, particolare («una mediocrità può avere qualità per emergere in quell'opera, ed essere pessima in tutte le altre») - fatto verificatosi, anche in tempi recenti. Il problema nasce dalla metamorfosi che Violetta subisce nell'arco dei tre atti, «mutazione» anche vocale. Dal tono conversativo, frivolo e brillante, del primo, suggellato dalla cabaletta «Sempre libera deggìo», si passa, nel terzo, a momenti di potente drammaticità come il funebre commiato «Prendi quest'è l'immagine». Per Violetta ci vorrebbero quasi due soprani diversi. A volte anche tre, se ci mettiamo le parti più liriche, quelle che insistono sul registro centrale e andrebbero cantate a fior di labbra, pensiamo alla sublime invocazione, «Dite alla giovane». Nel primo atto brillavano soprattutto i soprani leggeri, quelli con agilità nitide, e poco importava se avevano scarso peso per sostenere il seguito. Perché il pubblico - e in particolare quella razza speciale che chiamiamo melomani - attendevano il mi bemolle sopracuto a conclusione della cabaletta del primo atto. Su quella nota (non scritta da Verdi) si concentrano tutte le tensioni, magari fischiando chi la evita o la «stecca», anche se poi canta bene tutto il resto dell'opera (com'è successo a Mirella Freni nel contestato e raffinato allestimento scaligero diretto da Karajan, regista Zeffirelli, scenografo e costumista Danilo Donati).
Acuto a parte, conta il «naturale», l'intimo sentire, il possesso di tutte le «voci di dentro». Così si entra nella storia di Traviata. Ci sono riuscite leggende del canto: Claudia Muzio, Renata Scotto e Maria Callas, il cui ricordo aleggia da mezzo secolo nella sala del Piermarini.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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