«Vorrei non morire, per vedere come va a finire». Marcello Marchesi aveva sessantasei anni e chi stava di fronte a lui, nelle acque blu di san Giovanni in Sinis, nel golfo di Oristano, vide, sgomento, come andò a finire. Marchesi provò a fare una capriola tra le onde, volendo imitare il suo pazzo amico Walter Chiari. Uno scoglio nascosto e un'onda maledetta lo ferirono al capo, una, due, tre volte, Marchesi agitando appena le mani non trovò più luce e vita mentre Massimo, il figlio che aveva due anni, nulla capiva di quei fotogrammi e mentre Francesca, la moglie di Marcello, intuì il peggio. Quella non era una gag, non era una battuta, una delle mille geniali, di un signore di mezza età. Era il tentativo fallito di vivere e non sopravvivere, come gli era riuscito da sempre, quando scriveva per Bertoldo o Marc'Aurelio, quando riempiva pagine, fogli di quaderno, morsi di giornali, pizzini, dovunque, comunque, perché lo scritto era figlio del pensiero, fresco, giovanile, immediato.
Marchesi usava le parole come giocattoli, è stato uno dei più grandi umoristi italiani, umorista e non comico, solleticava il cervello e mai la pancia. I tasti della sua Olivetti ogni tanto non rispondevano agli ordini dei polpastrelli, le lettere macchiate di inchiostro nero saltavano sul foglio inserito nel rullo, per Marchesi erano come formiche impazzite, ebbe l'intuizione, «anche le formiche nel loro piccolo si incazzano», formula utilizzata e data alle stampe, nei secoli a venire, da Gino e Michele. Dormiva pochissimo, Marchesi, tre ore per notte, il resto era occupato da pensieri e parole, da appunti, telefonate, dialoghi con amici e sodali, il silenzio notturno stimolava riflessione e ilarità, «siamo nati per soffrire e ci riusciamo benissimo» fu una delle sue frasi migliori. Viveva attorniato da libri, dischi, pizze di film, nastri di registrazione, la casa era un teatro, il brionvega bianco alle sue spalle trasmetteva musica leggera e jazz. Gli piaceva suonare la tromba, amava su tutti Louis Armstrong, nel fisico un po' gli somigliava ma la dote migliore era il fischio, o meglio, Marcello Marchesi fischiettava come nessun altro a Milano e Roma, città di elezione ed esistenza. A mille e più di mille Marchesi ha regalato idee e copioni, Macario, Totò, Chiari per citare i più grandi. Che cosa sarebbe stato Carosello, il sipario di pubblicità televisivo serale, senza il lavoro eccezionale di Marchesi? In mille e più di mille hanno vissuto e approfittato delle sue battute, raffinate, eleganti, rapide fino al giorno in cui Marchesi medesimo si scocciò e disse all'amico regista Vito Molinari: «Mi sono rotto le scatole degli attori che recitano male i miei testi, adesso ci penso io». Accomodò sotto il naso un paio di baffi finti, aggiunse occhiali dalla montatura pesante nera, sulla testa mise un cappello che sembrava un incrocio tra un borsalino e una caciotta, prese un bastone ombrello per un equilibrio e una tutela migliori, si impacchettò in un impermeabile rotondo come lui e firmò il signore di mezza età, la bella età. Erano lontanissimi i giorni dell'Eiar, della Rai non ancora tale, le sere di fatica e fame nei teatri durante la guerra, cinque lire a battuta il suo salario per il Candido. Era lontanissima ma ancora viva la memoria di quel giorno dell'eccidio delle Fosse Ardeatine. Marchesi era l'autore di Sai che ti dico?, per la regia di Mattoli, in scena al Quattro Fontane. I rastrellamenti dei nazisti avevano messo nel terrore Roma. Attori e attrici della compagnia si erano nascosti sotto il bancone del bar del teatro, assistendo alla sfilata dei condannati a morte, lungo le strade. Marchesi il mattino appresso, saltò in sella alla sua bicicletta e cominciò a pedalare, non c'erano altri collegamenti dalla capitale verso il nord, lasciò Roma e raggiunse, con l'angoscia addosso, Milano.
Quel giorno di luglio del Settantotto la notizia arrivò improvvisa e qualcuno pensò a uno scherzo. La mezza età non era finita. La schiuma del mare aveva portato via un pezzo della nostra vita divertente.
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