P rima che i ragazzi terribili della yBa sconvolgessero il mondo dell'arte britannica, verso la fine degli anni '80, a Londra si era imposta una generazione che fece da ponte dalla scultura formale dei grandi maestri novecenteschi Henry Moore ed Anthony Caro alle provocazioni di Quinn, Turk, Hirst esplosi con Sensation. Di questo gruppo di coetanei fanno parte Tony Cragg, Anish Kapoor e Antony Gormley, il più visionario e complesso, di cui apre il 21 settembre una bellissima antologica alla Royal Academy. E quando un artista contemporaneo ottiene il riconoscimento di una delle principali istituzioni londinesi (prima di lui in queste sale Hockney, Kiefer, Ai Weiwei, il prossimo anno Marina Abramovic) significa che è entrato nella storia. Ciò che colpisce è la capacità di Gormley, classe 1950, di utilizzare i registri e i materiali più diversi, passando dalla Land Art alla rappresentazione della figura umana, dall'infinitamente piccolo alla costruzione di ambienti monumentali che cambiano la fruizione dello spazio, senza considerare la capillare attività nel disegno, dove può sperimentare di tutto, appuntare idee, selezionare progetti.
Uno sguardo attento si accorgerà di un neonato reclinato su di sé, come a proteggersi dallo spazio così grande: è Iron Baby (1999) che secondo l'artista suggerisce sia la nostra vulnerabilità sia il vigore della vita. In effetti la mostra è continuamente permeata dal senso dell'esistenza, nei corpi di Lost Horizon -24 uomini che fluttuano nella galleria- o nelle impronte lasciate sul cemento, mani che stringono pietre, piccole azioni eppure fortissime nel significato simbolico.
Resteranno però nel ricordo del visitatore alcune installazioni poderose e spettacolari, peraltro recenti, dove Gormley si rivela più che mai in stato di grazia e quasi certamente queste ultime sono le opere più significative del suo intero percorso. Matrix III è una sorta di gabbia realizzata con una maglia rettangolare di acciaio scura sospesa ad altezza d'uomo. A leggere che pesa diverse tonnellate c'è da augurarsi che sia sicura, ma la possibile minaccia passa in secondo piano rispetto alla bellezza. Per Gormley evoca «il fantasma dell'ambiente che tutti noi abbiamo scelto di accettare come nostro habitat primario», così una scultura compie la trasformazione in architettura, che diventa attraversabile nel caso di Cave, una galleria buia da attraversare a tentoni chinando la testa fino aggiungere in uno spazio tenebroso e gotico.
Entrambe del 2019 come Host, un'intera galleria riempita con una distesa d'acqua dell'oceano e argilla fino al livello di 23 centimetri, un'enorme vasca che nei mesi di apertura della mostra (fino al 3 dicembre), illuminata solo di luce naturale, potrà mutare aspetto a seconda delle ore del giorno e del tempo metereologico.È raro mettere insieme la solidità del percorso con la freschezza dell'innovazione continua e Gormley ci riesce. La retrospettiva londinese, una vera consacrazione, è da mettere in agenda, assolutamente da non perdere.
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