da Venezia
Le immagini più potenti di questa Settantaduesima Mostra del Cinema di Venezia sono quelle affidate all'inferno visivo di Behemoth del regista Liang Zhao ieri al Lido con gli occhiali scuri. Documentario in concorso, racconta il capitalismo di stampo cinese come la continuazione del maoismo sotto altre vesti, non più agricolo, ma industriale, dove a restare immutabile è proprio il disprezzo verso l'essere umano, umile formica da sfruttare e poi schiacciare.
Costruito come un viaggio dantesco e visionario nel rosso delle miniere di ferro che prendono il posto della natura, nel grigio della polvere che accompagna gli autocarri alle fonderie e riempie, fino a farli scoppiare, i polmoni dei minatori, nel celeste di città fantasma costruite nel nulla e abitate soltanto dalla bolla speculativa delle borse di Shangai o di Hong Kong, Beehomoth illustra la catena dell'industrializzazione in un Paese dove la mano d'opera è una variabile infinita, così come infinita è la distruzione del paesaggio che la circonda.
Prodotto e distribuito da società francesi,
Beehmoth difficilmente sarà visto in patria e il fatto che, come ha sottolineato lo stesso regista, alla conferenza stampa di presentazione ci fosse soltanto un giornalista suo connazionale, fa già capire come andrà a finire.
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