Al quinto anno di direzione artistica della Mostra di Venezia, il secondo del secondo mandato dopo quello tra il '98 e il 2002, Alberto Barbera parla di «rinnovamento rivoluzionario». Venezia, dice, «è il festival che sta investendo di più nel cambiamento dei contenuti e della logistica. Gli altri forse l'hanno fatto in passato, quando noi siamo rimasti immobili».
Dunque, c'è da recuperare un po' di terreno...
«Nell'ultimo paio d'anni abbiamo aperto un mercato che non c'era e creato Biennale college che già per questa edizione ha prodotto tre film. Abbiamo ridotto il numero delle opere in concorso e aumentato le proiezioni per stampa e operatori. Sul fronte della logistica il processo iniziato con la ristrutturazione del Palazzo del cinema è proseguito con numerosi altri interventi che, nel giro di pochi anni, cambieranno il volto della Mostra».
C'è un progetto che non è riuscito a portare a termine?
«Speravo di presentare già il Paladarsena rinnovato. Invece l'avremo l'anno prossimo».
È soddisfatto del cartellone allestito?
«Molto soddisfatto, lo dico senza remore. In questi giorni ho ripensato al programma e, aldilà di una possibile prevalenza di temi drammatici, credo che abbiamo allestito un cartellone ricco, con la presenza di film più leggeri e opere di genere».
Per esempio?.
«Penso a L'intrepido di Gianni Amelio, un'opera programmaticamente ottimista nonostante affronti la mancanza di lavoro e la crisi della famiglia. Oppure all'australiano Tracks che narra di una ragazza che sogna di attraversare il deserto con tre cammelli. Oppure, ai due film horror, un genere che non prediligo ma che è molto amato dalle generazioni più giovani».
L'anno scorso il filo conduttore erano i fondamentalismi: quest'anno?
«Prevale il cinema della realtà, che riflette la perdita di valori, l'assenza dei genitori e dei punti di riferimento etici e culturali. Senza dimenticare i film con un carattere di positività, protagonista è la crisi della civiltà contemporanea. Il cinema si accorge che dobbiamo trovare un modo di sopravvivere e reinventarci».
C'è un titolo che è orgoglioso di ver portato alla Mostra?
«Senza far torto a nessuno parlando del concorso, mi ha molto sorpreso Locke, interpretato da Tom Hardy. 75 minuti girati all'interno di un auto con un unico personaggio al telefono mentre viaggia sull'autostrada che lo riporta a Londra».
Molte pellicole attingono alla letteratura: un festival sempre più d'élite?
«Non direi. È una tendenza costante ispirarsi alle storie forti e collaudate della letteratura. Tra l'altro, sono opere molto diverse tra loro. C'è quella di James Franco, sgradevole ed estrema, tratta da McCarthy, ma c'è anche Philomena di Stephen Frears con Judi Dench. Poi, fuori concorso, Una promessa di Leconte, un melodramma classico rivolto al pubblico femminile».
Quindi non sarà un festival lontano dal mercato?
«Nel modo più assoluto. Ripeto: abbiamo fatto alcune scelte radicali e coraggiose inserendo per esempio i lavori di Ming-Liang e di Gröning. Ma ci sono anche film destinati al grande pubblico e che usciranno presto nelle sale. Un festival tutt'altro che quaresimale. Forse un festival strabico che guarda contemporaneamente al mercato e al cinema d'autore».
Alcuni produttori osservano che i costi per un lancio a Venezia spesso non vengono ripagati in sala. Così preferiscono Toronto...
«Il problema è complesso. Con l'unica eccezione di 12 Years a Slave di Steve McQueen che andrà a Toronto, nessuna pellicola di quelle che ho richiesto mi è stata negata. In realtà, con i tempi che corrono costa caro andare a tutti i festival. Questo è il primo punto...».
E il secondo?
«Non è vero che Venezia abbia perso impatto sul mercato. Con Cannes, Berlino è un gradino sotto, Venezia è uno dei festival che può vantare la presenza della stampa internazionale. A Toronto la stampa non c'è, ma si è sparsa la voce che sia la porta d'accesso al mercato nordamericano. Ciò a cui dobbiamo trovare rimedio è il fatto che il nostro mercato si è ridimensionato».
Secondo lei, questo perché è accaduto?
«Da noi sono crollate le presenze in percentuale maggiore rispetto ad altri paesi. Inoltre alcuni importanti produttori, come Medusa e Raicinema, hanno ridottola distribuzione di cinema straniero. Un mercato più debole che non sostiene il festival è un problema più che per il festival, per il fatto che gli spettatori italiani sono privati della varietà delle proposte internazionali».
Tuttavia alcune pellicole italiane, oltre che al Lido puntano su Toronto.
«Solo Luchetti ha scelto Toronto, dove ci saranno sette film italiani. A Venezia saranno venti. Dei sette film di Toronto solo tre sono prime mondiali, gli altri sono già passati qui o a Cannes. Le venti pellicole in cartellone al Lido sono tutte prime mondiali. Luchetti mi ha chiamato per dirmi che l'ultima volta il suo Piccoli maestri fu accolto così male che preferiva non rischiare. Ho accettato la sua scelta d'autore. Quest'anno ho visionato 155 lungometraggi di finzione e 77 documentari. È una favola che i registi italiani non vengano a Venezia. È vero che in passato alcuni sono stati accolti male. Sono al mio quinto anno di direzione e non ho memoria di accoglienze sguaiate o offensive».
Sente, a volte, di lavorare troppo in solitudine rispetto alla politica e all'industria cinematografica italiana?
«Ci sono vantaggi e svantaggi.
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