Ritorna "Tiro al piccione" capolavoro troppo "saloino"

Arriva in Laguna la versione restaurata dell'opera prima di Giuliano Montaldo che raccontava i soldati della Rsi

Ritorna "Tiro al piccione" capolavoro troppo "saloino"

Nel 2000 destò non poca curiosità, e in certi casi vero e proprio sconcerto, la pubblicazione di un volumetto di memorie della «guerra civile». Roberto Vivarelli, storico dell'età contemporanea di valore, al quale si deve una monumentale opera sulle origini del fascismo, in La fine di una stagione. Memorie 1943-1945, rivelava una verità sorprendente per un antifascista, peraltro discepolo di Gaetano Salvemini. Quattordicenne, nel 1943, Vivarelli aveva lasciato la nativa Siena per raggiungere Milano e arruolarsi nella Repubblica di Salò. Suo padre era morto in Jugoslavia nel 1942, ucciso dai partigiani. Il sacrificio del genitore lo aveva così spinto a seguire le sue orme. Era salito su un camion, direzione Nord. Racconto estremamente asciutto, cronachistico, non aggiungeva nulla in merito al vissuto dei «repubblichini». Era soltanto la sofferta liberazione di un fardello per troppo tempo tenuto nello stomaco. Le vicissitudini del giovanissimo Roberto richiamavano alla memoria le stesse vicissitudini narrate nel 1953, in forma di romanzo, da Giose Rimanelli in Tiro al piccione. Il testo era pronto già qualche anno prima. Ma «casa Einaudi», che doveva pubblicarlo, ebbe un ripensamento. Fu Elio Vittorini a farlo uscire con Mondadori nella collana «Medusa degli italiani».

Protagonista del romanzo è Marco Laudato (il diciottenne Rimanelli, nato a Casacalenda in Molise nel 1925). Quindi è solo il fratello poco più grande di Vivarelli. E anche lui abbandona la terra natia a causa del padre. Il genitore lo opprime, quotidianamente. Prima picchiandolo. Poi s'è accontentato dell'invettiva: «mangiapaneatradimento». Marco osserva le colonne motorizzare dei tedeschi che stanno risalendo la penisola, dopo lo sbarco degli «alleati». La noia e il sesso scandiscono giornate sempre più vuote, oltre al rumore dei camion, che «passano sotto le finestre tutte le notti fino all'alba». Fino a quando un tedesco gli tende la mano, lasciandosi il paese (e il padre) alle spalle. Parte senza una meta precisa. Raggiunge Padova. Poi Venezia. Per un po' sta con i tedeschi, che mangiano carne in scatola, pane nero, burro e marmellata. I tedeschi chiamano le reclute «badogliani». Alcuni sono davvero cattivi. Marco vuole liberarsi dalla tutela germanica. Fugge a Milano, per arruolarsi con le Brigate Nere. Adesso la guerra è vera.

Rastrellamenti, scontri in montagna con un nemico invisibile. «Sole, neve, freddo e imboscate». Crudeltà. I commilitoni cadono uno dopo l'altro. Ci si abitua alle perdite, e dopo un po' non si contano neppure più. «In guerra è necessario aver perdite, anzi è inevitabile». Avanzate, ritirate, morti dappertutto. L'eroismo di Marco, ferito gravemente durante un'azione pericolosa, gli vale una parentesi di convalescenza. Si torna a vivere normalmente; persino ad amare una donna. Poi, come la nebbia, la pausa svanisce. Di nuovo a combattere.

Al fianco di ufficiali ventenni e soldati quindicenni, ogni giorno si fa più dura. Si ammazza come cani e come cani si viene ammazzati. La fine è vicina. Fuggire, arrendersi, battersi sino all'estremo? Ormai Marco ha la netta sensazione che anche Dio gli è avverso. Gli resta il berretto con il «piccione» (l'aquila fascista), sul quale gli avversari tirano che è una bellezza, sforacchiandolo, prendendosi la vita di chi lo indossa. Nella battaglia finale è sicuro di morire. Poi la notizia. La guerra è finita. Mussolini è morto. La resa. E la fortuna che ti dà una mano, riportandoti dove sei partito. Ora comincia per Marco un'altra vita.

Nel 1961, da questo romanzo splendido, solo un po' appesantito dal diretto riferimento a Ernest Hemingway di Addio alle armi (l'amore del militare ferito con la crocerossina), il regista debuttante Giuliano Montaldo ne realizzò un lungometraggio. Montaldo è un genovese nato nel 1930. Fisico imponente. Volto scavato. Occhi celesti. Sguardo magnetico. Perfetto come attore. Difatti per un po' sta davanti alla macchina da presa. Poi decide di passare dall'altra parte. Gavetta dura nella produzione. Assistente alla regia di Carlo Lizzani. Appena gli capita l'occasione l'afferra al volo. Coraggio ne ha da vendere. Perché per portare sullo schermo il romanzo di Rimanelli ci vuole coraggio. Nel 1961 non si sono ancora spenti gli echi incandescenti del breve governo di Fernando Tambroni, dal marzo al luglio 1960. Proprio Genova è stata l'epicentro dell'incendio. L'antifascismo ha ripreso vigore. E Montaldo mostra il volto di chi l'antifascismo l'ha combattuto sino alla fine.

Tiro al piccione verrà presentato nella versione restaurata il domani a Venezia. Nonostante siano passati quasi sessant'anni, è un film splendido. Terso, duro, privo di retorica. Montaldo segue nella sostanza il romanzo di Rimanelli. Nonostante sia un'opera prima ha collaboratori di eccezione: su tutti il grande Carlo Di Palma, direttore della fotografia. Nella trasposizione lo hanno aiutato Ennio De Concini, Fabrizio Onofri e Luciano Martino. Al protagonista, il francese Jacques Charrier (famosissimo come marito di Brigitte Bardot, che il regista non voleva), manca la grinta necessaria. Ma è un dettaglio. Tutto sommato trascurabile. Su Tiro al piccione partì il fuoco di sbarramento dei comunisti. Mario Alicata il «ministro della cultura», stalinista di stretta osserva togliattiana, intellettuale di spessore, grande appassionato di cinema forgiatosi nella palestra della rivista Cinema di Vittorio Mussolini nel film di Monltaldo percepì chiari segni di «ambiguità». I fascisti non erano presentati col volto sanguinario. Dunque, pollice verso. «Il mio film venne presentato a Venezia ci dice il «quattro volte ventenne» Montaldo, in vacanza nella sua bella casa di Camogli e il giorno dopo la proiezione la critica fu unanime. Mi trovai davanti ad un plotone di esecuzione. Ancora oggi stento a comprendere sino in fondo le ragioni di un'accoglienza così negativa. Avevo avuto solo il torto di anticipare i tempi.

Riprendermi da quel netto rifiuto fu difficile. Se non ci fosse stata mia moglie Vera Pescarolo sarei tornato a Genova a fare il portuale». Meno male che è rimasto a Roma. Ci saremmo persi un capolavoro senza tempo: Sacco e Vanzetti.

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