"Saltarono sulla Balilla e cominciarono a correre all'impazzata verso Manerba"

Convulse giornate precedevano la corsa. Poi, quella telefonata inattesa...

"Saltarono sulla Balilla e cominciarono a correre all'impazzata verso Manerba"

L'umore di Sartori, dopo quel risveglio, non era dei migliori. Lavato, rasato, aveva sorbito il solito caffè con la signora Dubini - già pronta di prima mattina, con il turbante calato sulla testa e perfettamente avvolta nel suo caftano - senza però quei moti di solluchero, quegli schiocchi papillari che a lui servivano a dichiarare il sommo godimento gustativo, e alla sua affittacamere a fare un pieno di autostima che sarebbe bastato per l'intera giornata.

Il commissario uscì dal groviglio dei suoi pensieri uggiosi solo quando, sull'uscio di casa, sentì il rombo di un motore giungere da sopra i tetti di Salò, dalla nuova strada a mezza costa. No, l'ululato dei pistoni era troppo forte perché si trattasse del pur sonoro motore della Bugatti di casa Arquati. Esclusa quell'eventualità, Sartori era tornato a tuffarsi nel buio delle sue riflessioni e s'era incamminato verso il commissariato vietandosi di guardare verso Portese benché la villa, il giardino, la terrazza e la vetrata della casa di Anna fossero il luogo più naturale dove poggiare la traiettoria dello sguardo percorrendo il lungolago.

Saltò anche la sosta al caffè Impero, la tappa al bancone di Alfio, il latte macchiato e il rito con Argo, per andare in commissariato e chiudersi nel suo ufficio. Guardare il soffitto e riflettere sarebbe stata l'unica occupazione della mattina. Oltre a cercare al telefono Castagneto e assicurarsi di poterlo incontrare nel pomeriggio, nelle pur convulse giornate che precedevano la corsa.

A un tratto qualcosa distolse Sartori dai suoi pensieri malinconici tendenti al lugubre. I telefoni del commissariato si misero a squillare tutti assieme. Centralino, numeri diretti, persino il suo telefono cominciò a suonare.

«Ma che c...» stava protestando Sartori quando accostò all'orecchio la cornetta di bachelite nera.

«Commissario, è successo un casino» era la voce di Casali che sembrava esalare l'ultimo respiro. «Un incidente brutto brutto dopo il Crociale di Manerba. Ci sono due morti, pare siano quelli dell'auto francese iscritta alla Mille Miglia. Un casino, signor commissa...»

Sartori aveva già riattaccato urlando un solo monosillabo. «Cazz...»

Quando aprì la porta dell'ufficio c'era già l'agente Bubbico ad attenderlo. Era il guidatore più spericolato del commissariato di Salò, quello che Sartori doveva tenere sempre a freno. Sempre, ma non quella volta.

«Dai. Corri».

Bastarono quelle due parole. Saltarono sulla Balilla e cominciarono a correre all'impazzata in direzione di Manerba, mentre il clacson emetteva ululati e l'adrenalina trasformava la mente di Sartori in un cristallo nitido, una macchina vigile e sillogizzante

Arrivarono al Crociale di Manerba in meno di venti minuti, poi davanti a loro si aprì lo spettacolare viale di pini marittimi, quello che le auto da corsa di solito usavano per provare le velocità più estreme. A sinistra il lago se ne stava adagiato in un azzurro che prometteva una primavera radiosa. A destra le colline cominciavano a essere coperte da tappeti di fiori gialli.

In lontananza si intravedeva un capannello di persone su cui la Balilla d'ordinanza piombò come un fulmine. Bubbico inchiodò, le ruote stavano ancora stridendo sul ghiaino che Sartori era già balzato dall'abitacolo e si stava facendo largo fra sette o otto curiosi che non si raccapezzavano su cosa fare.

La scena era impressionante. Un bolide azzurro s'era schiantato contro il tronco di uno dei grandi pini marittimi. Il muso era sbriciolato, la carcassa formava un angolo di 45 gradi fra strada e tronco. Nell'abitacolo, fra sedile e volante, stava schiacciato il corpo del pilota. La testa era reclinata all'indietro in modo innaturale, con il collo spezzato. Il volto era una maschera di sangue: probabilmente nell'urto s'era sfracellato contro il cruscotto e poi era rimbalzato indietro, perdendo il casco nell'impatto. La rottura delle vertebre cervicali dava al corpo un profilo innaturale, da suppliziato della garrota.

Sul pino marittimo accanto a quello dello schianto, una scena altrettanto agghiacciante. Su un grande ramo che sporgeva dal tronco ad almeno cinque metri d'altezza rispetto alla strada stava, piegato in due, un altro corpo: gambe da una parte, braccia dall'altra, penzolavano nel vuoto come se attorno a quel ramo si fosse spezzato un manichino snodabile e non un corpo umano.

Sartori osservò le tute, il casco del manichino appeso al ramo, la sagoma e il colore dell'automobile. Non c'era dubbio: quell'angosciante spettacolo era ciò che restava della Delahaye destinata a correre con il numero 55. Quei due corpi martoriati erano tutto ciò che restava di Dominique Lafond ed Etienne Forcet.

La disgrazia c'era stata. L'incidente aveva spezzato in due il corpo del meccanico e la sua vita, e aveva spezzato il collo del pilota mozzandogli il respiro. La profezia di Nefertari s'era avverata. Ora restava solo da capire che diamine di vendetta potesse essersi materializzata in maniera così terribile e cruenta. Sempre che si volesse credere alla profezia.

A Sartori la contingenza drammatica aveva acuito tutti i sensi, moltiplicato la capacità decisionale. In pochi secondi ordinò all'agente Bubbico e a due presenti di dedicarsi al pilota e adagiarne il corpo fuori dall'abitacolo prima che la Delahaye prendesse fuoco, con tutto quell'odor di olio e benzina che veniva dalla carcassa dell'auto. A tre contadini sbigottiti che se ne stavano lì nei pressi ordinò di recuperare una scala e tirar giù quel disgraziato dall'albero.

Poco dopo, ai meccanici della Delahaye che arrivarono a bordo di due auto, ingiunse di fare un cordone e tenere lontani i curiosi. Ricacciarono lacrime e urla di dolore e si misero nella formazione con cui erano abituati ad accogliere i propri piloti vincitori: sentinelle in fila, disciplinate e inflessibili.

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