Scarabei dorati e manette: l'arte di dare vita al vetro

Nella Fornace di Berengo, i maestri di Murano lavorano con star come Fabre, Ai Wei Wei e Schütte

Scarabei dorati e manette: l'arte di dare vita al vetro

Chi crede de esere? Sull'isola dicevano così, quando Adriano Berengo ha iniziato a portare i grandi artisti contemporanei a lavorare il vetro. Lì, a Murano, nella sua Fornace. Poi quel sogno è diventato Glasstress, un evento collaterale della Biennale che ora è alla quinta edizione (che si inaugura giovedì a Palazzo Franchetti, e sabato nello spazio di Murano). Fra gli artisti di quest'anno il cinese Ai Wei Wei, Charles Avery, Loris Gréaud, Paul McCarthy, Tony Cragg, Jan Fabre, Koen Vanmechelen, Vik Muniz, Thomas Schütte, Erwin Wurm, Jaume Plensa...

Si chiama Glasstress, perché - spiega Berengo - glass «è una parola abbastanza a internazionale» e «stress lo è davvero»; poi «il vetro è soggetto a stress, ed è un po' la mia autobiografia», perché all'inizio tra le calli c'era resistenza. Berengo non sapeva niente di arte, niente del vetro. Mai messo piede a Murano fino a 28 anni: veneziano, «nato di fronte all'Arsenale, a due passi dalla Biennale» sessanta anni fa, papà falegname, un'esperienza nella marina mercantile, studi in letterature comparate a New York (con una Fulbright), un giorno davanti all'hotel Danieli vede una famiglia ricca «attratta» da un agente di uno showroom di Murano. Li segue sulla barca, scopre che per un servizio di bicchieri spendono circa quanto «quattro anni di salario» («Capisce, ho avuto uno choc; la prima volta che hanno acceso tutti i lampadari in quello showroom ho pensato: che spreco») e chiede: «C'è qualcosa da fare per me qui?».

Anni dopo Berengo crea una azienda tutta sua, poi la Fondazione Berengo (nell'89), con la quale inizia a lavorare con gli artisti locali e cerca la risposta a una domanda: «Che cosa si può fare di importante, unico e grande con e per il vetro?». Proprio a Venezia, anni prima una risposta l'aveva data Peggy Guggenheim, spinta da Egidio Costantini; è sulla loro scia - per esempio quella tracciata nel volume sugli artisti di Costantini Da Picasso a Fontana - che Berengo non si dà per vinto e nel 2009 ha la sua occasione: Palazzo Franchetti, che avrebbe dovuto ospitare il padiglione dell'India per la Biennale, resta vuoto perché Mumbai è stata appena colpita da una serie di attentati, così lui si fa avanti: «Datelo a me». È la prima Glasstress, accanto a opere storiche di Rauschenberg e Fontana ci sono i lavori realizzati dalla sua fornace «in quattro mesi», ci sono già le collaborazioni con artisti come Schütte, Fabre, Cragg, Plensa, che poi continuano negli anni. Sono passati tutti da Murano, dalla sua Fornace? «Tutti qui, li voglio tutti qui. Qui si capisce la verità» dice Berengo. «Se uno non conosce il vetro, si fa idee strane, come fosse plastica...». La prima volta che Thomas Schütte è arrivato al laboratorio c'era tensione: «È un tipo meditativo, difficile, molto severo. È entrato con la sua sigaretta, ha girato e rigirato intorno ai pezzi che avevamo preparato e poi ha detto: Mi piacciono tutti». A volte è prudenza: «Per gli artisti addentrarsi in un mondo di cui sanno poco può essere rischioso. Ma io, come dice Ai Wei Wei, sono determinato. E quando ottieni la loro fiducia cambia tutto». Poi può essere complicato, perché l'artista «non è che sia indeciso, ma cerca sempre una perfezione ulteriore»: per esempio l'americana Sarah Sze è arrivata «con l'idea di riprodurre scheletri di topo, poi ha cambiato approccio e ora vuole mettere dei pezzi di vetro lungo tutte le finestre del Palazzo». Insomma «è l'unica a farmi pazzo più di lei», dice parlando con Xenia Hausner, pittrice austriaca che passeggia per lo spazio espositivo che Berengo ha creato a pochi metri dalla Fornace, destinato a diventare, l'anno prossimo, «il primo museo di arte contemporanea in vetro». Per ora ospita The Unplayed Notes Factory, installazione di quasi mille «spore» luminose in vetro che pendono dal soffitto del giovanissimo francese Loris Gréaud, in onore del quale Pinault offrirà una cena lunedì. E qui è appeso, per ora, il lampadario-scultura di Ai Wei Wei («lo vuole allungare, da tre a quattro metri»), decorato con manette, uccellini e mani col dito medio in evidenza, vale a dire quelle del manifesto della mostra, che inizialmente ha suscitato perplessità: «Ai Wei Wei mi ha detto: Cos'è, censura?». L'artista cinese è quello che più ha fatto «soffrire» Berengo: «Già otto anni fa ero andato a Pechino nel suo studio e mi aveva detto: Vedi, questo è quello che sappiamo fare, ma non abbiamo la cultura del vetro: perciò stai sicuro che verremo da te». Poi è stato arrestato; mentre era ai domiciliari ha iniziato a dare a Berengo «i compiti» da fare, come appunto la mano col dito medio. «È stato qui a Natale, l'ho portato al Museo del vetro. Ed è tornato qualche giorno fa, siamo stati da Bevilacqua dove ha comprato delle stoffe antiche, è un grande collezionista. Si è appassionato al vetro perché dice che affonda in una storia millenaria, e il passato è come un oceano da cui puoi pescare quello che vuoi».

Koen Vanmechelen (per Berengo «come un figlio», visto che lo segue da venticinque anni), che nel giardino di Palazzo Franchetti ha installato un uovo gigante di 12 tonnellate imprigionato in una gabbia, dice che «il vetro bisogna capirlo, capirne la filosofia»; e bisogna «trovare il maestro giusto», come Silvano Signoretto, che col fratello Pino domina, anche fisicamente, la Fornace (i due fratelli, ricorda Berengo, «hanno realizzato le sculture in vetro per Jeff Koons ai tempi dell'amore con Ilona Staller»). Anche le creazioni in vetro della mostra Glass and Bones di Jan Fabre sono nate nel laboratorio di Berengo, mentre a Glasstress il belga avrà «degli scarabei egiziani dorati»: «Ha la fissa degli insetti e del colore blu». Un altro «difficile» con cui Berengo lavora da anni è Erwin Wurm: «Molto sofisticato, umorale, egocentrico. Come tutti gli artisti, alla fine». Ci saranno, a Palazzo Franchetti, anche le «anguille» dello scozzese Avery: «Lui è giovane, fantastico. Mi ha cercato dopo avere visto delle opere in vetro a Chicago; aveva provato a fare le anguille ad Amsterdam, ma non erano venute bene».

L'unico a non essere stato a Murano è Paul McCarthy: ha approvato dall'America i butt plug (vale a dire stimolatori anali) che in laboratorio stanno giusto giusto «cuocendo» per la mostra («sono belli, ironici, ne facciamo sei prototipi»). Conclusione: «Più lo usano gli artisti, più il vetro diventa un materiale adatto all'arte contemporanea. Anche se pochi padroneggiano davvero l'arte del vetro». O «hanno il fisico», come dice Koen Vanmechelen...

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