P artiamo dal nome, Giordano. «L'unica cosa che non rinfaccio a mia madre». Giordano Tedoldi, 48 anni vissuti anche un po' esagerando: «Ma mai per provocare. Nella mia prima fase ero un po' splatter, ma per me quella era la vita: ero negli estremi, quelle cose le conoscevo meglio della cosiddetta normalità». Ha esordito con i racconti (Io odio John Updike), poi il romanzo I segnalati. Ora ha scritto di un viaggio fra i morti, Necropolis («Chiarelettere mi ha chiesto un romanzo per una collana di distopie»): il maresciallo Yarden, in pellegrinaggio fra la Necropoli Ovest, catacombale, e la Necropoli Est, una stazione spaziale, interroga i defunti per scegliere quale sia, fra i due, il luogo dove farsi seppellire. «Lo accompagnano un adolescente, un negromante e un androide: diciamo che c'era un bello spazio per la libertà di invenzione» dice, mentre camminiamo per Roma. «Qui è tutta una necropoli, del resto».
Perché i morti?
«La verità è morta: proclamata, ma non praticata».
Quale verità è morta, quella dei romanzi? Ora che va tanto la non fiction...
«La non fiction non mi piace. Questi romanzi-documento sono pieni di distorsioni e punti di vista soggettivi; e poi sono monotoni, non c'è mai uno scarto, perché devono seguire il protocollo della verità. Diventano rapporti freddi».
Non sempre sono freddi.
«Tutti questi testimoni, alla fine, mantengono sempre un distacco. In Una giornata di Ivan Denisovic, Solgenitsin racconta di come i prigionieri lottassero per accaparrarsi un tocco di pane, per raccogliere quello che restava della garitta. Ma Solgenitsin era lì».
Si può scrivere solo di quello che si è vissuto allora?
«Goffredo Fofi diceva: Apri la finestra e racconta quello che vedi fuori, e questo ha rovinato gli scrittori per anni. È qualcosa che può fare un robot, o una macchina fotografica: manca il vissuto, il pathos di gettarsi in modo folle su una esperienza che può essere interiore».
Questa verità c'è ancora?
«Pratica di più la verità chi non ne fa un vessillo, bensì la sente come esigenza interiore di esprimere il proprio vissuto. Per il resto, viviamo in una grande veglia funebre, come i siciliani nelle loro cripte: onoriamo i cadaveri, il passato, senza capire che sono spenti e non hanno più niente da dare».
Perciò nel suo romanzo parla di morti?
«Viviamo come I morti di Joyce, un eterno inverno, con le tradizioni del '900 che non ci rassegniamo a seppellire: la destra, la sinistra, l'antifascismo, l'Europa...»
C'è del nichilismo?
«No. Anzi, invito a dare degna sepoltura a queste tradizioni e a vivere liberi: l'uomo, e basta».
L'arte ha ancora una funzione?
«Molto di più, per me. È una compagna di vita. L'arte dà forma e ordine, crea percorsi immaginifici e allegorici, e l'uomo ha la capacità di vivere nel simbolico».
In Necropolis succedono cose terribili.
«La storia è terribile, perché al centro della storia c'è l'uomo, e gli uomini sono terribili».
C'è molta violenza.
«È vero, ma c'è anche dolcezza. E poi l'arte è violenta, è l'unico territorio in cui possiamo sviscerare ed esorcizzare la violenza più profonda. L'arte è il territorio franco dell'umano».
C'è del sadismo, anche, nella scrittura?
«Meni fendenti all'impazzata, quando scrivi. È come una partita di calcio decisiva: può scappare una entrata assassina, e pazienza se tocca a tua madre, a tuo fratello, a un tuo amico. Il lettore vuole il sangue, vuole che tu dia tutto. E io voglio dare tutto. Voglio andare in porta».
A volte il suo libro è perverso.
«Dipende dal punto di vista di partenza. Per me la parola perverso è insignificante. Il mio modo di vivere è estremo, anche se, ora, ho capito il fascino del giusto mezzo, alla greca: una mediazione salvifica, come intuisce anche il protagonista».
Come mai questa trasformazione?
«Adoro ancora Nietzsche, come da giovane, ma Nietzsche è diventato pazzo, e da questo bisogna trarre delle conseguenze. Così ho scoperto la conciliazione, l'aurea mediocritas. Sono diventato epicureo...».
Ci sono anche cose disgustose, nel libro.
«Ma è un disgusto divertente, liberatorio, come i giochi dei bambini con la cacca. È l'adulto che è censore. Comunque, ho una soglia del disgusto molto bassa. E amo i romanzi spregiudicati, non la letteratura ritegnosa».
Qual è la letteratura ritegnosa?
«Eh, farei prima a dire quale non lo è. Le benevole di Jonathan Littell. O James Purdy, per me il più grande, per il coraggio di esplorare l'uomo in quanto tale. Narrow Rooms è un romanzo splendido, mi candido a tradurlo in italiano».
Autori italiani che le piacciono?
«Com'è quella frase? Mi ami? Ti stimo molto».
Necropolis è angosciante. O anche questo è un punto di vista?
«No no. Cioran a confronto è un musical. Credo che il mio primo romanzo, I segnalati, sia il più angosciante della letteratura italiana. Chiedo scusa per la frase superba».
Perché scrive libri così angoscianti?
«Se lo sapessi non li scriverei... Perché c'è qualcosa di profondo, dietro quell'angoscia, ci sono volti, segreti da scoprire, e qualità umane che vanno raccontate».
E l'umorismo?
«Mi serve per respirare».
Ha mai avuto difficoltà a pubblicare?
«Enormi. I miei libri sono troppo duri, faticosi. Gli editori già vendono poco, li posso capire. Ci sono cose più potabili. Però non sono un outsider, ho molti amici scrittori, ho il massimo rispetto dei premi e spero di vincerne molti...».
Chi le ha detto di no?
«Einaudi disse che
I segnalati era un urlo matto; un altro editore grosso mi disse che era troppo eccentrico. Io invece trovo i miei libri di una compiutezza cartesiana. Sono tutti questi libretti pulitini, invece, a sembrarmi dissennati».
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