Gli scrittori più "musoni" sono i padri della comicità

Petrarca, Montaigne, Cervantes e Descartes: un poker di... insospettabili ha dato origine a un nuovo modo di raccontare. E di vivere

Gli scrittori più "musoni" sono i padri della comicità

C'è un programma televisivo che va per la minore, eppure piuttosto divertente. È un talent-show, ma questa volta sul piatto ci sono degli aspiranti comici, e a giocarseli sono i quattro «pokeristi» della giuria. Il vero spettacolo non è dato dai concorrenti, poiché nove volte su dieci non solo non fanno ridere, ma non strappano nemmeno un sorriso, bensì dai loro giudici, e consiste nelle acrobazie retoriche, nella sottile diplomazia, nei democristiani giri di parole usati per eliminare i peggiori. Del resto l'umorismo è una cosa seria, persino seriosa, quando lo si disseziona sul tavolo anatomico linguistico-filosofico.

Ebbene, in L'umorismo letterario (Carocci, pagg. 351, euro 29), serissimo e dottissimo saggio di Giancarlo Alfano, assistiamo all'autopsia di quello che è più di un genere, più di un filone, più di una forma mentis. È una sorta di virus latore di una malattia che richiede un lungo e tormentato decorso per dare un esito non infausto. Studiando l'eziologia del fenomeno in Europa, l'autore risale a quattro pazienti illustri. Nessuno dei quali è percepito come umorista, tutt'altro. Ma prima di esaminarli ci ricorda che «umorismo» deriva da «umore», e che la teoria degli umori proprio a un medico la dobbiamo, anzi al primario fra tutti i medici della Storia: Ippocrate. Le rimembranze liceali ci soccorrono: l'eccesso di bile nera genera il malinconico; quello di flegma genera il flemmatico; quello di bile gialla genera il collerico; quello di sangue genera il sanguigno. E chi sono i magnifici quattro? Eccoli, in ordine di apparizione.

Petrarca, la melanconia fatta persona, titolare però di una scoperta fondamentale per la messa a tema dell'umorismo: la durata e la mutevolezza dei sentimenti. Montaigne, flemmatico cronico chiuso nelle sue stanze come il ragno nella tana a osservare il mondo, esperto però nell'indagine dei piccoli, apparentemente trascurabili eventi del quotidiano. Cervantes, collerico come il suo eroe nei confronti di un mondo che si ostina a non accogliere nella dimensione del reale le elucubrazioni della fantasia, ingegnoso però nell'inscenare un teatro dell'assurdo che un altro collerico di qualità, Beckett, avrebbe condotto alle estreme conseguenze. Descartes, sanguigno nell'impietosa scarnificazione del presunto sapere umano, generoso però nel concedere il primato alla corporeità dell'io.

Se volessimo giocarci sopra (in fondo, stiamo parlando di umorismo), potremmo vedere in Petrarca un precursore di Buster Keaton, dal silenzio della meditazione all'afasia della recitazione; in Montaigne un maestro di Charlie Chaplin, dall'introspezione dell'essai alla creatività minima, mimica e mimetica; in Cervantes, vale a dire nella sua coppia irresistibile Chisciotte-Panza, lo sceneggiatore di altrettanto irresistibili evoluzioni, quelle di Stanlio e Ollio; in Descartes il principe della pensata che conduce a Totò principe della risata, un buco nero che inghiotte e digerisce, rielaborandola nella propria stralunata prospettiva, qualsiasi situazione.

Abbiamo scherzato troppo? Questione di gusti, ovvero di opinioni. E sono le opinioni di Tristram Shandy, insieme alla sua vita narrate da Sterne, a introdurci nel secolo d'oro dell'umorismo, il Settecento, e nel Regno Unito. Unito dallo humor. Secondo il tristanzuolo Tristram, «il corpo e l'anima sono, parlando con il massimo rispetto per tutt'e due, esattamente come un corpetto e la sua fodera: stropicciate l'uno, stropicciate anche l'altra». Egli fa parte, nota Alfano, della genìa degli «eutràpeloi», come diceva Aristotele, dei «faceti». È uomo di spirito in un'epoca che dello spirito, del saper vivere, della sprezzatura ha fatto la propria bandiera. Amplificando a vantaggio di un'ampia platea, quella delle accademie, dei gabinetti di lettura, degli epistolari aperti, delle riviste come il Tatler (il chiacchierone) ogni sfumatura degli umori umoristicamente patologici che scorrono nella società. Perché a un «io» che parla o che scrive deve sempre corrispondere un «tu» che riceve il messaggio. L'esercizio di quella che con Foucault possiamo chiamare microfisica del potere avviene sempre di fronte a un pubblico. Crébillon saggiamente afferma che «per non passare per ridicolo, bisogna diventarlo, o almeno sembrarlo». Ed Hegel, noto musone dalla mente finissima, sottoscrive in questi termini: l'attività principale dell'umorista «consiste nel far in sé decomporre e dissolvere tutto ciò che pretende di farsi oggettivo e di acquistare una forma fissa».

Ben lungi dal seppellirci, come un tempo ritenevano molti ragazzi malati di pessimismo truccato da ottimismo, una risata ci salverà, in sintonia con la bellezza, della quale è naturale corollario.

Ma per farlo deve ingerire le pillole amarissime dell'esperienza, come accadde a Dossi, Pirandello, Svevo, per restare in Italia. «Detto in una parola - conclude Alfano -, la scrittura umorista è trasparente perché denuncia e rivendica la propria opacità». E questa non è soltanto una battuta.

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