Mano a mano che avanzano nell'età, gli scrittori capiscono se la loro opera «resterà» o se è destinata a scomparire con loro. John Irving lo ha capito nel mezzo del cammino, quando nel 1978 lui nato nel 1942 pubblicò Il mondo secondo Garp (Bompiani). Il successo di questo romanzo, in parte autobiografico e venato da follia, tristezza e paradosso in egual misura, quindi per niente «facile», fu tale da trasformarlo in uno dei libri più venduti al mondo e da portarlo sullo schermo con protagonista Robin Williams. Oggi Irving, giunto al 14° romanzo e in arrivo in Italia per incontrare i suoi lettori al Festival Collisioni (6 luglio, ore 15.30, Piazza Blu), gode di quell'autorevolezza come se il tempo non fosse passato. Una decina di giorni fa, quando ha deciso di scrivere per il New York Times un denso articolo sulle «crociate» anti-abortiste, ha scatenato un ampio dibattito.
Lei ha preso al volo il successo più di 40 anni fa: quando ha capito che non l'avrebbe più mollato?
«Progetto accuratamente i miei romanzi. Esistono, prima che cominci a scriverli, per anni attraverso appunti e bozze. Non avrei mai immaginato di diventare così famoso e nemmeno di potermi mantenere scrivendo. Garp era il mio quarto romanzo, ma ho cominciato quando avevo 14 anni e sapevo che non avrei mai smesso».
Che tipo di scrittore è lei? Rimane per sempre padre dei suoi libri o una volta scritti li lascia andare orfani per il mondo?
«Il mio primo libro un romanzo storico, non commerciale fu comprato per farne un film e mi pagarono per scriverne la sceneggiatura. Ci lavorai due anni, insieme a un mio vecchio preside. Il film non si fece mai. Ero deluso e pensavo che non avrei mai più scritto per il cinema. Ma quel preside mi aveva insegnato come vedere un film dentro una storia e ormai lo sapevo fare, e così. Scrivere è fare, come il wrestling».
Il wrestling?
«Entrambi richiedono ripetizioni continue e costanti, una ferrea volontà di rifare e rifare e rifare ancora qualcosa che hai già fatto. Un incontro di wrestling dura sette o otto minuti, ma gli stessi movimenti vengono ripetuti infinite volte. Eppure in quei pochi minuti sembrano accadere per la prima volta. Ma non è così. Per un buon romanzo è lo stesso: non accade e basta, non c'è niente di naturale. Però quando lo leggi deve sembrare pensato all'istante e buttato giù al volo, anche se è cresciuto un centimetro alla volta».
Lei insegna scrittura: come è possibile insegnare una cosa del genere?
«Ci sono lezioni di musica e lezioni di pittura, ma tutti questionano sulle scuole di scrittura. Chiaro che devi amare e capire la tua lingua e avere talento, chiaro che non si può semplicemente insegnare a qualcuno a scrivere. Ci vuole motivazione interiore, visione, un'abilità nativa: ci sono alcuni miei studenti che non diventeranno mai scrittori. Ma uno scrittore dotato di esperienza può insegnare a un giovane scrittore che cosa possiede e può fargli risparmiare tempo, che per gli scrittori è preziosissimo. Vonnegut non mi ha insegnato a scrivere come lui: vide che cosa ero e come lottavo e mi indicò cose che avrei potuto scoprire da solo. Ma ci avrei messo anni, mentre Kurt mi ha dato fiducia e mi ha rivelato le mie buone e cattive abitudini. I miei studenti non scrivono come me, hanno le loro voci: ho aiutato T.C. Boyle e Ron Hansen. Ho aiutato Kent Haruf: aveva già le sue idee, ma le ha tirate fuori prima».
Lei aveva capito il potenziale di Kent Haruf prima che diventasse un caso mondiale?
«Avevo capito che aveva un surplus di integrità e onestà. Che era molto duro con se stesso. Che nulla gli veniva facile, ma che nemmeno se lo aspettava».
Con Vonnegut invece poi siete diventati amici per la vita.
«È stato il primo a leggere il mio primo romanzo: per me è stato un grande regalo. E poi siamo diventati amici. Me lo trovavo seduto a fumare sui gradini fuori casa la mattina, mentre mi aspettava. E quando veniva dentro a bere il caffè, i miei figli uscivano a contare le sigarette per capire da quanto era lì. Bisogna essere gentili, mi diceva sempre. E non era una stronzata detta tanto per dire».
Lei sta scrivendo una storia di fantasmi, in questo momento, Darkness as a bride...
«Sarà uno dei miei romanzi più brevi. Il personaggio principale è una ex sciatrice professionista. Non ce la fa con lo slalom e diventa maestra di sci. Ma la sua competitività non muore mai. È suo figlio a raccontarne la storia e i fantasmi sono centrali. È un romanzo politico sui fantasmi».
Allora non è vero che, come diceva Hemingway, bisogna scrivere solo di ciò che si conosce.
«La mia autobiografia è noiosa. Perciò quando uso elementi autobiografici, non li uso mai così come sono, ma li miglioro o li peggioro. Questo perché la mia biografia non ha nulla di sacro, per me. Io sono uno scrittore del tipo Pensa alla cosa peggiore che può capitare e vedi come va a finire: tiro la realtà fino alle estreme conseguenze, esagero tutto e lo faccio sembrare vero».
Il contrario di Hemingway.
«Il mantra di Hemingway è la ricetta di un giornalista per scrivere fiction. Penso che Hemingway fosse noioso e in definitiva un prepotente. A me piace imparare sempre qualcosa di nuovo. Mi piace mettermi nei panni di qualcun altro. Ho fatto una fatica tremenda a capirne di ostetricia e ginecologia, ho passato giorni negli orfanotrofi, nelle missioni dei Gesuiti, ad ascoltare concerti d'organo o tra le discariche in Messico, di giorno e di notte.
Una cosa che gli scrittori non possono fare e non devono fare è dire ad altri scrittori come devono scrivere. Io ho il mio metodo e lascio agli altri il proprio. Se fare il narratore non è un mestiere democratico, allora cos'è?».
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.