Un secolo fa l'impresa del Vate. Grazie a documenti inediti, Giordano Bruno Guerri ricostruisce i 500 giorni che segnarono un'esperienza unica Anche in tema di diritti

Alessandro Gnocchi

D isobbedisco! Cinquecento giorni di rivoluzione. Fiume 1919-1920 (Mondadori, pagg. 564, euro 28) di Giordano Bruno Guerri è il racconto appassionante e documentato della avventura di Fiume. La città oggi croata fu invasa dai legionari guidati da Gabriele d'Annunzio che intendeva rimediare alla vittoria mutilata. L'Italia aveva vinto la Prima guerra mondiale ma aveva perso la pace. Umiliata al tavolo delle trattative, la nostra delegazione scoprì che il diritto all'autodeterminazione dei popoli, sventolato dal presidente degli Stati Uniti Wilson, si applicava in tutti casi meno uno: il nostro. Secondo il censimento del dicembre 1918, su 46.264 cittadini, di cui 29.000 italiani e 5.000 ungheresi, abitavano in città 12.000 slavi, in maggioranza croati. Fiume aveva scelto di essere italiana. Ma gli alleati, specie gli Usa, non volevano saperne. Il 12 settembre 1919 Gabriele d'Annunzio occupa militarmente la città dichiarandola annessa al Regno d'Italia. Sconfessato dal Governo di Roma, il Vate crea la Reggenza Italiana del Carnaro (8 settembre 1920) dotata di costituzione e di governo propri. Il 12 novembre 1920 si firma un accordo a Rapallo tra il Regno d'Italia e il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni che aveva dato vita, mutilando parte dell'area portuale, allo Stato Libero di Fiume. D'Annunzio si rifiuta di abbandonare la città. Nel Natale del 1920, lo scontro tra truppe italiane regolari e legionari dannunziani segna la fine all'Impresa.

Su Fiume si è scritto molto. Pochi però hanno accesso alle carte di Gabriele d'Annunzio conservate presso l'archivio del Vittoriale, la residenza-museo di cui Guerri è presidente con risultati eccellenti. Disobbedisco! quindi ha interi capitoli fondati su materiale inedito, ad esempio le lettere dei legionari in cui è testimoniata la vita quotidiana della città occupata: una festa lunga un anno, che preannuncia addirittura il Sessantotto (ma in meglio). Guerri separa nettamente l'esperienza di Fiume dal fascismo, la distanza è sempre più netta a partire dall'approvazione della Carta del Carnaro, la costituzione vergata dal sindacalista Alceste De Ambris e Gabriele d'Annunzio. I rapporti tra il poeta e Mussolini sono all'insegna della ambiguità, come ha dimostrato, fin dagli anni Ottanta, Francesco Perfetti (si veda Fiumanesimo, sindacalismo e fascismo, Bonacci, 1988). Il Duce prese dal Vate alcune caratteristiche: il rapporto con la folla, l'importanza delle pubbliche occasioni di ritrovo, gli slogan («Me ne frego!»). Le somiglianze, in sostanza, finiscono qui. Guerri fa notare che tra le migliaia di oggetti conservati al Vittoriale, non ce n'è uno riconducibile al fascio. Soprattutto offre assaggi della corrispondenza tra i due: d'Annunzio maltratta Mussolini. Resterebbe da spiegare perché il Vate abbia lasciato a Mussolini il ruolo di Duce. Dopo Fiume avrebbe potuto marciare su Roma ma non lo fece. Rimase in attesa, suggerendo ai suoi legionari di non mescolarsi con i fascisti.

La più affascinante chiave di lettura offerta da Guerri ci riporta al Rinascimento. In fondo d'Annunzio, a Fiume, replica il modello delle città-stato rette da un Duca (e non da un Duce). Non fu quella l'esperienza politica più autenticamente italiana? Il Rinascimento, inoltre, fu il periodo di massima fioritura culturale e artistica della Penisola. Dunque, da lì bisognava prendere esempio anche in campo politico: un'idea tipicamente reazionaria, che Joseph de Maistre avrebbe sottoscritto senza esitazione. Quando d'Annunzio accetta il comando di Fiume pone una condizione: «Non essere mai chiamato governatore: terrà il suo titolo di guerra, che ora e solo ora coincide felicemente con quello dei capitani medievali e dei condottieri rinascimentali, guerrieri, artisti e legislatori. Da questo momento sarà per tutti il Comandante» (Guerri). Ma accanto alla reazione, d'Annunzio volle la rivoluzione. E la rivoluzione, incredibile a dirsi, non portò violenza ma prese la forma di una Costituzione, la Carta del Carnaro, uno dei capolavori (anche letterari) del poeta. Pura avanguardia accompagnata dalla convinzione che si debbano imporre con la forza leggi che abbiano il sapore di un bacio a mezzanotte nel bosco (così la descriveranno alcuni fiumani). Il Comandante si appella alle idee libertarie nate nei paesi alleati, «alla Francia di Victor Hugo, all'Inghilterra di Milton, all'America di Lincoln e di Walt Whitman».

La Carta del Carnaro avrebbe garantito il governo democratico e rivoluzionario di Fiume. Promulgato l'8 settembre 1920, il testo esprime insieme la personalità politica di Alceste De Ambris e quella anche culturale di d'Annunzio, teso a renderlo anche una creazione culturale. Il modello, nota Guerri, era forse quello della Serenissima e del cantonalismo svizzero, da cui si traeva l'ispirazione per una democrazia diretta e per la convivenza multietnica. La parità dei sessi; il suffragio universale; l'autonomia dei comuni; l'insegnamento nelle varie lingue del territorio; l'istruzione primaria gratuita; l'assistenza sociale per malattia, invalidità, disoccupazione, vecchiaia. Il corporativismo della Carta del Carnaro, «nulla ha in realtà a che fare», ha scritto Renzo De Felice, «nello spirito e nella sostanza, non solo con il corporativismo cattolico, ma anche con il corporativismo e con i programmi di riforma politico-sociale fascisti». Era un corporativismo che intendeva sul serio proteggere i più deboli. D'Annunzio riconosceva la proprietà privata ma vincolata alla sua utilità sociale: «Lo Stato non riconosce la proprietà come il dominio assoluto della persona sopra la cosa, ma la considera come la più utile delle funzioni sociali. Nessuna proprietà può essere riservata alla persona quasi fosse una sua parte; né può essere lecito che tal proprietario infingardo la lasci inerte o ne disponga malamente, ad esclusione di ogni altro». Non mancavano articoli in favore delle arti, della salute pubblica, oggi diremmo ecologisti. L'esercito era riformato in chiave più collegiale nelle decisioni vitali.

Gli aspetti messi in luce da Guerri sono tantissimi. Per concludere, ne scegliamo uno. A una impresa irregolare non poteva non corrispondere una cultura irregolare. L'esperimento più originale fu il giornale Yoga, diretto dal funambolico aviatore Guido Keller e da un giovane ufficiale che diventerà un grandissimo scrittore, Giovanni Comisso. Yoga era portavoce dell'individualismo, dello spiritualismo, della restaurazione dei valori di Atene contro il Cristianesimo e l'affarismo. Le avanguardie gradiscono il gesto di Gabriele d'Annunzio. Il Club Dada berlinese invia al Corriere della Sera un messaggio aperto, rivolto al Poeta: «Se gli alleati protestano preghiamo telefonare Club Dada Berlino. Conquista grandiosa impresa dadaista per il cui riconoscimento interverremo con tutti i mezzi. L'atlante mondiale dadaistico DADAKO riconosce Fiume già come città italiana». Anche i futuristi come Mario Carli (ardito, tra l'altro) convergono su Fiume.

Si presenta anche Filippo Tommaso Marinetti, il quale, dopo aver capito che non sarà la star degli avvenimenti, se ne torna a casa (futurista il giudizio di d'Annunzio su Marinetti: «Cretino fosforescente»).

L'impresa di Fiume sarebbe celebrata ovunque come momento di orgoglio nazionale. Invece l'Italia ha fatto finta che nulla sia accaduto in quei mesi leggendari tra il 1919 e il 1920.

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